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F.A.Q.


  

Nel caso edifici che costituiscono dei centri commerciali si applicano le norme sul condominio negli edifici, fintanto che non trovano applicazione le clausole contrattuali che disciplinano la gestione degli spazi comuni alle singole unità immobiliari. Questa la conclusione che è possibile trarre leggendo la sentenza n. 7736 resa dalla Suprema Corte di Cassazione il 2 aprile 2014.
Nel caso di specie uno il proprietario di un'attività commerciale ubicata nel predetto centro s'è visto condannato al pagamento delle spese condominiali richiestogli con decreto ingiuntivo.
In breve: la società Alfa edifica un centro commerciale ed inizia a vendere le unità immobiliari in esso ubicate. Negli atti d'acquisto è previsto che la gestione delle parti comuni sia demandata ad un consorzio di successiva costituzione.
Di conseguenza le spese per la gestione di tali aree avrebbero dovuto essere disciplinate in base agli accordi contrattuali. L'uso del condizionale non è casuale. Il consorzio, infatti, non veniva costituito e nelle more di tale atto, la gestione veniva demandata al condominio che, con regolari assemblee, provvedeva a ripartire i costi tra tutti i proprietari delle unità immobiliari ubicate nel centro.
Ne seguiva un ricorso per decreto ingiuntivo contro uno dei partecipanti alla compagine. Questi si opponeva contestandone la legittimità: egli, a suo modo di vedere, non doveva alcunché in quanto gli atti d'acquisto lo esoneravano dalle spese. L'opposizione veniva accolta in primo grado ma, a seguito del giudizio d'appello promosso dal condominio si tornava al punto di partenza (vale a dire alla legittimità del decreto): insomma il condomino doveva pagare. Da qui il ricorso in Cassazione. Prima di entrare nel merito della soluzione fornita dagli ermellini, vale la pena soffermarsi sulla natura dell'obbligo di contribuzione alle spese di gestione del condominio.
La Cassazione, sul punto la dottrina è concorde, afferma oramai da tempo che "le obbligazioni dei condomini di concorrere nelle spese per la conservazione delle parti comuni si considerano obbligazioni propter rem, perché nascono come conseguenza della contitolarità del diritto sulle cose, sugli impianti e sui servizi comuni. Alle spese per la conservazione per le parti comuni i condomini sono obbligati in virtù del diritto (di comproprietà) sulle parti comuni accessori ai piani o alle porzioni di piano in proprietà esclusiva. Pertanto, queste obbligazioni seguono il diritto e si trasferiscono per effetto della sua trasmissione" (Cass. 18 aprile 2003 n. 6323).
Insomma si pagano le spese di conservazione in quanto s'è proprietari dell'unità immobiliare ubicata nell'edificio. (Decreto ingiuntivo: il verbale di approvazione del rendiconto è prova scritta)
La normativa sulle spese ed in ogni caso quella sulla gestione delle parti comuni di un edificio può essere regolamentata tra le parti in modo autonomo, ma fintanto che ciò non si avvera, non v'è motivo per escludere che la gestione del condominio sia soggetta all'ordinaria disciplina codicistica.
In tal senso, con riferimento al caso sottopostole, la Cassazione ha affermato che solo a seguito della costituzione del consorzio "l'amministrazione delle cose comuni relativa all'area adibita a centro commerciale sarebbe stata differentemente normata e disciplinata con autonoma e nuova elaborazione di tabelle di ripartizione di spese ed oneri".
Nelle more dell'esecuzione di questo di questo adempimento, specificano dalla Cassazione, dovevano trovare applicazione le norme sul condominio. Di conseguenza, i giudici proseguono nel loro ragionamento evidenziando che dalle delibere assembleari "(peraltro mai impugnate dal ricorrente), in cui sono state deliberate e ripartite le spese per le quali fu a suo tempo ingiunto il pagamento, non poteva che derivare l'obbligo del dovuto pagamento". In buona sostanza, chiosano da piazza Cavour, "mancando la prova della costituzione del Consorzio ed essendo, viceversa, sussistente la prova dell'esistenza Condominio non può che ritenersi esatta la conclusione a cui è pervenuto il Giudice d'appello [?]" (Cass. 2 aprile 2014 n. 7736), ossia: il decreto era legittimo ed il condomino deve pagare quanto richiesto con quell'atto. (Magazzino non riscaldato perchè il proprietario deve pagare le spese?)


Fonte http://www.condominioweb.com/ai-centri-commerciali-si-applicano-le-norme-per-il-condominio.2194#ixzz3mMYK6vWc
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Nonostante il decoro architettonico rappresenti una prerogativa essenziale degli edifici residenziali il legislatore non enuclea una precisa nozione.
Il caso. Le presenti considerazioni prendono spunto da una controversia giunta in Cassazione (sentenza 4 febbraio 2014, n. 2441). Alcuni condomini effettuano una serie di lavori sulle loro proprietà esclusive, in violazione di una norma prevista dal regolamento che vieta ogni alterazione architettonica. Secondo i giudici di merito, il divieto previsto nel regolamento condominiale di alterazioni architettoniche, vale a prescindere dall'incidenza delle modifiche sul profilo estetico. Di diverso avviso sono i ricorrenti, secondo cui il decoro architettonico del condominio è un concetto"di relazione" che si pone come limite alla libera espressione del diritto dominicale del singolo condomino. Di conseguenza, il divieto predetto viene violato solo se le opere immutative abbiano assunto un carattere negativo rispetto all'estetica del fabbricato (nel caso di specie non si era verificato in quanto avevano chiuso alcuni balconi con vetrate omogenee). Trattandosi di valutazioni di fatto la Corte, in sede di legittimità, non può pronunciarsi ma la problematica ci consente di effettuare alcune considerazioni sul nozione di decoro e sua eventuale alterazione.
=> Il concetto di "alterazione". In tema di edifici in condominio la tutela delle parti comuni viene apprestata nei casi in cui il condomino ne faccia un uso illegittimo, compromettendone l'aspetto esteriore con innovazioni che alterino il decoro architettonico del fabbricato. Quindi l'indagine relativa va condotta in stretta correlazione con la visibilità della nuova opera, tenuto conto che nessun pregiudizio può essere riscontrato in manufatti che siano assolutamente invisibili ai terzi, ovvero siano visibili in posizioni tanto distanti e particolari da non lasciar spazio ad un'eventuale compromissione estetica. (Corte di Cassazione, 17 ottobre 2007, n. 21835).Si ricorda, inoltre, che l'estetica del fabbricato è data dall'insieme dei suoi elementi architettonici e strutturali e non dal contesto in cui lo stesso si colloca.I valori architettonici, pertanto, vengono impressi dal complesso delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell'edificio e non dall'impatto dell'ambiente circostante. Una determinata innovazione (tipo la realizzazione di una veranda) potrebbe costituire o meno alterazione dell'euritmia del fabbricato unicamente nel caso in cui vi sai una apprezzabile depauperamento del decoro architettonico. Una violazione dell'euritmia del corpo di fabbrica, quindi, potrebbe essere lamentata nel caso in cui il fabbricato abbia una valenza storica di rilievo ovvero nell'ipotesi in cui il corpo di fabbrica acquisisca valenza e valore per il particolare inserimento nel contesto nel territorio circostante. (Corte di Cassazione, 18 novembre 2011, n. 24327). Quindi, l' alterazione del decoro va valutata caso per caso, e pertanto, sfugge a catalogazioni normative.
=> Il limite del regolamento condominiale. In tale contesto è opportuno chiarire il "peso", in materia, del regolamento condominiale. La giurisprudenza di legittimità precisa che il regolamento condominiale ben può contenere norme intese a tutelare il decoro architettonico dell'edificio e, dunque, suscettibili di incidere anche sulla sfera del dominio personale esclusivo dei singoli condomini in funzione della salvaguardia del bene comune. Ma si è anche precisato che le compressioni particolarmente onerose del diritto di proprietà dei singoli condomini dovrebbero essere inserite necessariamente in un regolamento condominiale di natura contrattuale. Pertanto solo un regolamento condominiale di natura contrattuale può incidere sui diritti dei singoli condomini inerenti le parti comuni e quelle di proprietà esclusiva, fino al punto da vietare, in maniera più stringente rispetto al codice civile, determinati comportamenti (Corte di Cassazione, 24/01/2013,n. 1748).Del resto, recentemente, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che l'autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che limitino, nell'interesse comune, i diritti dei condomini sia relativamente alle parti comuni, sia con riguardo al diritto dominicale sulle parti di loro esclusiva proprietà (Corte di Cassazione, 10 maggio 2012, n. 7178). Quindi solo le norme di un regolamento di origine contrattuale possono derogare o integrare la disciplina legale, fornendo del concetto di decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall'art. 1120 c.c. ed estendendo il divieto di immutazione sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all'estetica, all'aspetto generale dell'edificio (Corte di Cassazione., 6 ottobre 1999, n. 11121).

“ Quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale contenga le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione” (art. 1138, primo comma, c.c.).

La deliberazione del regolamento è validamente assunta con il voto favorevole dalla maggioranza dei partecipanti all’assemblea che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio. La stessa maggioranza richiesta per la nomina dell’amministratore, per intendersi.

Il condominio, ma questo può avvenire solamente se c’è il consenso di tutti quanti i comproprietari e non per forza in sede assembleare, può dotarsi d’un regolamento contrattuale che per definizione è in grado di limitare e vincolare l’uso delle parti di proprietà esclusiva e comune. Nel caso di instaurazione di vere e proprie servitù il regolamento dovrà essere trascritto presso la conservatoria dei pubblici registri immobiliari, oltre ad essere redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata, ai fini della sua opponibilità a terzi (si pensi a soggetti non ancora condomini al momento della sua stipula).

In entrambi i casi il regolamento deve assumere forma scritta a pena di nullità. E’ bene ricordare, inoltre, che nel caso di regolamento contrattuale la modifica delle clausole assembleari (quelle che disciplinano l’uso delle cose comuni, ad esempio) può essere deliberata con le maggioranze indicate dalla legge per l’adozione e la revisione del regolamento. Solamente le clausole contrattuali debbono essere modificate con il consenso di tutti i condomini.

Ciò detto è bene comprendere, anche grazie ad alcuni esempi, come l’adozione di un regolamento possa incidere sulle modalità d’uso e sui diritti dei condomini in relazione alle cose comuni ed alle parti di proprietà esclusiva.

Uso delle cose comuni e delle parti di proprietà esclusiva

S’ipotizzi che, a seguito dell’adozione di un regolamento, l’uso del parcheggio debba avvenire a turnazione (per permettere a tutti i condomini di sostare, stante il numero superiore di mezzi rispetto agli spazi destinati ad accoglierli) o che l’assemblea disponga, per ragioni di miglior uso il divieto di sosta sui viali condominiali. In tal caso, al di là delle cattive abitudini, tutti i comproprietari debbono osservare la nuova norma, salvo il caso di impugnazione e dichiarazione d’illegittimità della regola. Niente di diverso dal rispettare una nuova legge, sostanzialmente. Quanto alle limitazioni d’uso (es. divieto di parcheggio per uno specifico o condomino o divieto di detenere animali domestici) queste limitazioni possono essere contenute solamente in un regolamento contrattuale. Al pari delle “normali limitazioni” se legittimamente adottate anch’esse devono essere rispettate. Che cosa accade se, ad esempio, si vieta la detenzione di animali eppure qualche condomino già lì ha? In questo caso dovranno essere le parti nel redigere la clausola a disciplinare a partire da quando debba ritenersi valida e con quali, eventuali, eccezioni.

Fonte http://www.condominioweb.com/approvazione-del-regolamento-condominiale-e-nuove-regole-cosa-accade-dopo-la-sua.727#ixzz3mMei6MGA
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Quella del Tribunale di Verona è solo l'ultima sentenza, in ordine di tempo, ad essersi occupata del rapporto tra l'attività di B&B ed i regolamenti condominiali che spesso vietano di destinare le unità abitative ad attività di impresa, distraendole dalla loro destinazione naturale.
Il Tribunale, nonostante il divieto contenuto nell'art. 29 del Regolamento del condominio resistente (in base al quale doveva ritenersi vietata l'adibizione degli alloggi ad uso laboratorio, scuole, circoli ricreativi, depositi di merci ed a qualsiasi altra attività di impresa e, più in generale, ad un uso diverso da quello di abitazione e/o differente da quello previsto dal piano regolatore del Comune di Verona), invocato dallo stesso per vietare alla condomina-ricorrente, di destinare le due unità immobiliari di sua proprietà ad attività di B&B e per impedire agli ospiti di questo di accedere alle parti comuni del condominio, quali piscina, parco, campo da tennis ed altro, ha ritenuto che essendo tale divieto contenuto in un atto negoziale a carattere regolamentare, lo stesso debba soggiacere alle regole ermeneutiche fissate ex art. 1362 c.c. e che, pertanto, l'interprete non debba e non possa limitare la propria interpretazione al solo dato letterale, dovendo dare rilievo all'effettiva volontà delle parti.
Il Tribunale nell'escludere l'incompatibilità tra l'attività di B&B e la destinazione abitativa dell'immobile ha, infatti, tenuto conto del fatto che lo stesso regolamento non impedisca, anzi, consenta, ai condomini di affittare le proprie unità abitative, consentendo anche ai locatari di accedere e di fruire degli spazi comuni anzidetti.
Secondo il Tribunale, inoltre, il divieto posto dall'art. 29 del Regolamento esprime la volontà e deve, quindi, essere interpretato nel senso di vietare solo quelle attività incompatibili con la destinazione abitativa, interpretazione suggerita anche da alcune pronunce della Corte di Cassazione, in base alle quali ai limiti negoziali ed eteronomi posti al godimento della proprietà esclusiva è necessario dare una interpretazione restrittiva, per non comprimerne eccessivamente la vocazione espansiva (Si veda Cass. civ., 31 luglio 2012, n. 137281, in D&G online, 2012, pag. 666, con nota di A. GALLUCCI, La Corte utilizzata come zona di passaggio può essere usata come parcheggio?).
I divieti e le limitazioni al godimento delle unità immobiliari di proprietà esclusiva, contenuti in norme di un Regolamento condominiale (Si veda Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 1998, n. 10335, in Riv. Not. 1999, pag. 668, secondo cui le convenzioni che obbligano tutti o alcuni condomini a preservare le originarie destinazioni delle unità immobiliari per l'utilità generale dell'edificio possono essere inserite nei Regolamenti condominiali che, per la relativa parte, assumono natura contrattuale) devono, infatti, risultare da una volontà chiaramente ed espressamente manifestata o comunque desumibile in modo non equivoco dalle stesse, in modo da non lasciare margini di incertezza circa il loro contenuto e la portata delle disposizioni (In tal senso, Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2010, n. 3002, in Giust. Civ. 2010, 5, pag. 1099, con nota di N. Izzo).
Quanto alle modalità di indicazione dei divieti e delle limitazioni di destinazione che possono interessare le unità immobiliari di proprietà esclusiva, la Cassazione si è espressa nel senso che possono essere formulati sia elencando le attività vietate, sia indicando i pregiudizi che si intende evitare; in tal caso, per stabilire se l'attività rientri o meno tra quelle vietate, è necessario accertare l'idoneità della destinazione a produrre gli inconvenienti che si intendono evitare (cfr. Cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20237, in D&G online, 2009, 3, con nota di A. Gallucci, Regolamento di condominio e facoltà d'uso delle unità immobiliari: la Suprema Corte afferma la legittimità delle clausole imitatrici.)
Nel caso di specie, l'attività di B&B, a prescindere dal suo essere o meno un'impresa commerciale, è stata ritenuta perfettamente compatibile con la destinazione abitativa dell'unità immobiliare, poiché, in base alla l. 135/2001 ed alle L. regionali applicative deve necessariamente essere esercitata nell'ambito di immobili che possiedono i requisiti urbanistico-edilizi, igienico-sanitari e di sicurezza previsti per le abitazioni.
Ad una conclusione non dissimile da quella del Tribunale di Verona è giunta la Cassazione con la sentenza 24707/2014 (Cass. 20 novembre 2014 n. 24707,in www.condominioweb.com, con nota di A. Gallucci, Bed and Breakfast in condominio nessun cambio di destinazione d'uso degli appartamenti; ed in Immobili & Proprietà 3/2015, pag. 151 con nota di L. Salciarini, Bed & Breakfast e regolamento di condominio), con la quale i giudici di legittimità hanno riconosciuto che rispetto all'attività di B&B in condominio non possa parlarsi di cambio di destinazione d'uso dell'immobile in cui essa si svolga, poiché tale servizio viene offerto in una civile abitazione; nel caso di specie il Regolamento condominiale vietava di destinare gli appartamenti ad un uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato.
Il Tribunale ha, inoltre, precisato che, per il suo esercizio, non è richiesto il requisito della professionalità in capo ai soggetti che la esercitano né l'apertura della partita Iva, purché venga assicurata la saltuarietà della stessa, mediante l'interruzione dell'attività per un certo numero di giorni, variabile da Regione a Regione, anche non consecutivi.
Infine, il Tribunale ha sottolineato la libertà che ne accompagna la cessazione in ogni momento, senza che vi sia la necessità di operare ristrutturazioni dell'unità abitativa al fine di ripristinarne la destinazione ed il carattere sobrio,breve e parafamiliare della fruizione dell'immobile adibito a questo tipo di attività di ospitalità.
Da ultimo si segnala la sentenza 26087/2010 (Cass. 23 dicembre 2010 n. 26087 in www.condominioweb.com, con nota di A. Gallucci, Regolamento di condominio e divieto di svolgere attività di affittacamere: è vietato anche il Bed & Breakfast), con cui la Corte di Cassazione ha escluso la liceità dell'attività di B&B condotta da un condominio, pur non essendo tale attività espressamente menzionata nel Regolamento di condominio, ritenendola riconducibile entro l'attività di affittacamere espressamente indicata, da tale atto, tra le attività vietate.


Fonte http://www.condominioweb.com/lattivita-di-bedbreakfast-compatibile-con-la-destinazione-abitativa.11852#ixzz3mMWgMSfj
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Con una recente ordinanza la Corte di Cassazione stabilisce che la legislazione in materia urbanistica non può comportare un automatico recepimento della disciplina nell'ambito di rapporti privatistici
Il caso. La controversia in questione origina dall'impugnazione proposta da un Condominio contro la delibera assembleare che aveva autorizzato due condomini allo svolgimento di un'attività di bed & breakfast all'interno dell'unità immobiliare di loro proprietà esclusiva. Rigettata l'impugnazione dinanzi al Tribunale, la medesima trovava accoglimento in sede d'appello: convincimento del giudice del gravame era infatti che «tale delibera, assunta a maggioranza, si ponesse in contrasto con l'uso abitativo contrattualmente prestabilito nel regolamento condominiale e, in particolare, con i patti speciali allegati agli atti di divisione dell'immobile, costituenti regolamento condominale contrattuale e nei quali era previsto che “i proprietari del fabbricato si impegnano sin d'ora a destinare esclusivamente ad abitazione singoli piani loro assegnati, impegnandosi categoricamente a non modificare tale destinazione”». Da un lato, dunque, detta previsione , vietando in maniera specifica e categorica un uso diverso da quello abitativo, non consentiva di includervi un'attività ricettiva di tale natura; dall'altro, la delibera contestata violava l'art. 1102 c.c. «incidendo sui diritti individuali del condomino che subirebbe un deprezzamento del valore della sua proprietà che verrebbe snaturata anche quanto al suo utilizzo tenuto conto che l'immobile è una pregiata villa di campagna con ingresso, viale di accesso e giardino comune». Ricorrevano dunque in cassazione i condomini soccombenti in appello. Questo condominio non è una pensione.
La decisione. I ricorrenti hanno preliminarmente censurato la sentenza impugnata sul presupposto che una legge della Regione Lombardia dispone espressamente che l'esercizio dell'attività di bed and breakfast non determini il cambio di destinazione d'uso dell'immobile. La Suprema Corte ha radicalmente escluso la fondatezza di detto motivo chiarendo che «circa la rilevanza della legge regionale che esclude che il bed and breakfast possa integrare un mutamento di destinazione d'uso, occorre ribadire che la legge regionale ha finalità diverse, relative alla classificazione delle attività (alberghiera o non alberghiera), e non può incidere sui rapporti privatistici e sugli obblighi che reciprocamente si assumono i condomini, in questo caso con un regolamento contrattuale». In materia – sottolineano i giudici di legittimità – rileva piuttosto la giurisprudenza della medesima Corte, la quale ha chiarito che l'attività di affittacamere, sostanzialmente analoga a quella in questione, pur differenziandosi da quella alberghiera per le sue dimensioni decisamente più contenute, richiede non solo la cessione del godimento di locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni, ma anche la prestazione di servizi personali; in assenza di detta prestazione, quella cessione non può essere ricondotta all'attività di affittacamere, né, di conseguenza, essere sottratta alla disciplina della locazione ad uso abitativo (Cass. civ., 8/11/2010, n. 22665).
Peraltro, sotto un ulteriore profilo, i ricorrenti hanno denunciato la correttezza della sentenza impugnata in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale del 14 novembre 2008, n. 369, la quale aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale di un comma dell'art. 45 della Legge Regione Lombardia n. 15 del 2007, nella parte in cui condiziona al consenso dell'assemblea condominiale l'esercizio dell'attività di bed & breakfast in appartamenti situati in condominio; al riguardo, i giudici costituzionali avevano rilevato che una norma regionale non può ingerirsi nella materia dei rapporti condominiali tra privati. Tuttavia, il richiamo che di tale sentenza viene fatto nella fattispecie in commento non è corretto, dal momento che la Corte Costituzionale, diversamente da quanto sostengono i ricorrenti, non avrebbe confermato che sarebbe illegittimo il sindacato del condominio sull'utilizzo delle singole abitazione quando non vi sia cambio di destinazione di uso, ma ha ribadito che «al legislatore regionale non è consentito incidere su un principio di ordinamento civile e, in particolare, sul rapporto civilistico tra condomini e condominio […]». La norma regionale contestata disciplinava il rapporto privatistico tra condomini e condominio in modo difforme e più severo rispetto alle previsioni del codice civile e, in particolare, dagli artt. 1135 e 1138 c.c. Pertanto, considerando che queste norme restringono i poteri dell'assemblea dei condomini a quelli fissati tassativamente dal codice e che la compagine assembleare non può porre limitazioni alla sfera di proprietà dei singoli condomini, a meno di una loro specifica ed espressa accettazione, nel caso esaminato dalla Corte Costituzionale, la situazione si presentava esattamente al contrario, con una delibera assembleare approvata a maggioranza che pretendeva di derogare pattuizioni regolamentari contrattuali – adottate all'unanimità.
In definitiva, «il problema che si è giustamente posto il giudice di appello per decidere la controversia era e rimane un problema sostanzialmente interpretativo della volontà espressa dai proprietari», ossia, nella fattispecie, una questione di interpretazione del regolamento condominiale contrattuale, che, vietando categoricamente un uso diverso da quello abitativo, non consente una destinazione dell'unità abitativa a bed and breakfast; pertanto – si conclude in sede di legittimità – «non si pone un problema di applicazione o violazione delle norme di legge richiamate nel motivo».
Il servizio offerto in una “civile abitazione” Si segnala in chiusura una pronuncia della Suprema Corte, che sembra invero manifestare un indirizzo interpretativo parzialmente differente rispetto a quello indicato: sempre in tema di esercizio dell'attività di bed and breakfast in condominio, i giudici di legittimità hanno infatti escluso che possa in tal caso parlarsi di cambio di destinazione d'uso dell'unità immobiliare in esso ubicata, in quanto tale attività si fonda sul fatto che il servizio è offerto in una civile abitazione (Cass. civ. 20 novembre 2014, n. 24707). In tale fattispecie, a fronte dell'apertura da parte di alcune condomine di un'attività di bed & breakfast negli appartamenti di loro proprietà, il condominio le aveva citate in giudizio per contrarietà di detta attività alla previsione regolamentare secondo cui «è fatto divieto di destinare gli appartamenti a uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato». Soccombente in appello, il condominio ricorreva davanti alla Suprema Corte, la quale ha tuttavia confermato la correttezza della pronuncia impugnata, nella parte in cui aveva rilevato che «la disposizione regolamentare, tenuto conto che la destinazione a civile abitazione costituisce il presupposto per la utilizzazione di una unità abitativa ai fini dell'attività di bed and breakfast (affermazione, questa, coerente con il quadro normativo di riferimento: art. 2, lett. a, del regolamento regionale Lazio n. 16 del 2008 , in cui si chiarisce che “l'utilizzo degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di destinazione d'uso ai fini urbanistici"; in proposito, vedi anche Corte cost. sent. n. 369 del 2008), non precludesse la destinazione delle unità di proprietà esclusiva alla detta attività ».
Tale sentenza lascerebbe dunque intendere che l'espresso divieto all'esercizio dell'attività in questione in un'unità in condominio debba risultare in maniera specifica ed inequivocabile da una clausola regolamentare contrattuale.


Fonte http://www.condominioweb.com/bed--breakfast-in-condominio.11589#ixzz3mMXP4SjY
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L’introduzione delle nuove tecnologie e i collegamenti in fibra ottica, offro grandi vantaggi per le nostre abitazioni. Il costante aumento delle installazioni di queste nuove tecnologie, negli edifici condominiali, hanno alimentato alcune questioni sotto il profilo dei rapporti tra condominio e gestori. Da ultimo non sono mancate alcune proteste in merito ad un recente provvedimento adottato dal Governo Monti

Il nuovo “pacchetto tlc”
Per rilanciare l”azienda Italia” cercando di ridurre il divario digitale, mediante una serie di semplificazioni procedurali ed alleggerendo adempimenti ed autorizzazioni al fine di favorire la diffusione della banda ultralarga, connessioni wireless e nuove tecnologie di connessione, il precedente Governo, ha previsto uno specifico “pacchetto tlc”, disciplinato dal decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, che ha come finalità principale lo sviluppo delle reti di telecomunicazioni in fibra ottica e la diminuzione del divario digitale del territorio nazionale.

All’intero del Decreto, per quanto riguarda gli scavi per la posa della fibra ottica, viene prevista l'esenzione della tassa per l'occupazione del suolo e del sottosuolo oltre a prevedere, con apposito decreto ministeriale, le specifiche tecniche delle operazioni di scavo per le infrastrutture a banda larga. Il decreto dovrà inoltre definire la superficie massima del manto stradale da ripristinare al seguito dell’esecuzione dell’opera. Sempre al fine di velocizzare i tempi delle operazioni di scavo per le infrastrutture a banda larga e ultralarga nell’intero territorio nazionale i tempi per il rilascio della autorizzazioni all’effettuazione degli scavi indicati nel progetto, nonché la concessione del suolo o sottosuolo pubblico necessario all'installazione delle infrastrutture vengono dimezzati: si passa da 90 a 45 giorni nei casi ordinari, da 30 a 15 giorni nel caso di lavori di scavo di lunghezza inferiore ai duecento metri. Mentre nel caso di apertura buche, chiusini per infilaggio cavi o tubi, posa di cavi o tubi aerei su infrastrutture esistente o allacciamento utenti il termine è ridotto a 10 giorni.



Via libera al cablaggio senza il consenso dei condomini
Precedentemente, il legislatore aveva emanato la legge 133 del 6 agosto 2008 e la legge 18 giugno 2009, n. 69. Quest’ultima conteneva una normativa specifica riguardante programmi di interventi infrastrutturali nelle aree sottoutilizzate necessari per facilitare l'adeguamento delle reti di comunicazione elettronica pubbliche e private all'evoluzione tecnologica e alla fornitura dei servizi avanzati di informazione e di comunicazione del Paese. Nonostante gli sforzi, l’Italia risulta essere uno dei paesi europei meno cablati. In questo contesto, ed in base alla nuova normativa, i condomini non potranno più opporsi all’installazione delle antenne e ripetitori.
Con il nuovo articolo 14 della legge 17 dicembre 2012, n. 221, che ha convertito in legge il decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, viene disposto quanto segue:

l'operatore di comunicazione durante la fase di sviluppo della rete in fibra ottica può, in ogni caso, accedere a tutte le parti comuni degli edifici al fine di installare, collegare e manutenere gli elementi di rete, cavi, fili, riparti, linee o simili apparati privi di emissioni elettromagnetiche a radiofrequenza;
il diritto di accesso è consentito anche nel caso di edifici non abitati e di nuova costruzione;
l'operatore di comunicazione ha l'obbligo, d'intesa con le proprietà condominiali, di ripristinare a proprie spese le parti comuni degli immobili oggetto di intervento nello stato precedente i lavori e si accolla gli oneri per la riparazione di eventuali danni arrecati.


Quindi alla luce del nuovo dettato normativo si dispone che i condomini non potranno più opporsi, all’accesso dell’operatore di comunicazione al fine di realizzare o manutenere gli impianti. Inoltre, si specifica, che il diritto di accessoè consentito anche nel caso di edifici non abitati e in corso di costruzione.Solo in caso di danno l’operatore sarà tenuto a risarcire i danni provocati. In realtà, questo recente intervento normativo, vuol porre fine ad una situazione che era caratterizzata da alcune variabili: troppa libertà per enti pubblici da un lato e condomini che ostacolavano scavi e cablaggi creando inevitabilmente lungaggini nelle operazione di scavo ed installazione degli impianti.

In attesa del decreto vi sono interessi contrapposti
Per rendere operativo questo nuovo decreto si attendeva il regolamento per semplificare le procedure e ridurre i tempi previsto dal decreto Crescita 2.0, entro la fine di aprile, ma che ancora non ha visto la luce. Dal alcune indiscrezioni trapelate, complice del rallentamento potrebbe essere stato il periodo convulso del dopo-elezioni e la formazione del nuovo Governo.

A quanto pare a rallentare l’iter ci sono una serie di problemi da risolvere:

la bozza di regolamento predisposta dal ministero dello Sviluppo nono è stata completamente gradita dal ministero dei Trasporti;
l'Anas ha evidenziato la questioni di costi per il ripristino degli interventi;
l'associazione dei Comuni chiedono una condivisione preventiva del regolamento.


Ovviamente la necessità di avere un regolamento significa:

rispettare gli obiettivi dell'Agenda digitale europea;
evitare di porre in essere una giungla di scavi senza controllo;
facilitare la rapida posa in opera della nuova rete, secondo le modalità meno invasive, a minor impatto ambientale e meno onerose.


Ovviamente sarà necessario calibrare le diverse esigenze, non solo delle aziende ma anche degli abitanti dei vada edifici al fine di porre una concreta garanzia contro interventi particolarmente invasivi e dannosi. Per ragioni la necessità di emanare una norma chiara che stabilisca tempi e standard tecnici e autorizzativi valevoli per tutto il territorio nazionale sarebbe sicuramente una via di uscita da questo empasse.


Fonte http://www.condominioweb.com/cablaggi-velociproteste-in-merito-ad-un-recente-provvedimento-adottato-dal-governo-monti.1481#ixzz3mMaCFXKZ
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Questa, nella sostanza, la domanda che ci giunge da un nostro condomino.
Scrive il sig. X : “Un paio di mesi fa il mio appartamento ha subito un danno da infiltrazioni provenienti da una colonna di scarico fognaria comune.
Ho avvisato l'amministratore, il quale s'è prontamente attivato presentando denuncia di sinistro alla compagnia assicurativa del condominio.
Qualche giorno fa è arrivata la risposta dell'Assicurazione, che nega di dover indennizzarmi in quanto a suo modo di vedere il danno non rientra nei sinistri coperti dalla polizza. Che cosa devo fare?”
Al riguardo è bene distinguere tra responsabilità del condominio e ruolo dell'assicurazione rispetto ai sinistri provocati da beni dell'assicurato.
Responsabilità del condominio
Innanzitutto è bene ricordare che un condomino subisce un danno che proviene da parti comuni dell'edificio, il responsabile di quel danno è sempre il custode dei beni comuni, ossia il condominio. La fonte normativa di tale responsabilità è l'art. 2051 c.c. che disciplina l'ipotesi di responsabilità per i danni da cose in custodia. L'elaborazione giurisprudenziale ha chiarito sul custode dei beni (nel nostro caso la compagine) grava una responsabilità di carattere oggettivo che può essere esclusa solamente in ragione del così detto caso fortuito, ossia di un evento non prevedibile ed addebitabile al custode medesimo.
In sostanza chi subisce un danno da parti comuni ha come propria controparte il condominio.
Come quantificare i danni da infiltrazione
Che cosa accade se la compagine stipula una polizza assicurativa per vedersi indennizzata per questo genere di danni?
Contratto di assicurazione
Ai sensi dell'art. 1882 c.c.
“L'assicurazione è il contratto col quale l'assicuratore, verso pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l'assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro, ovvero a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana”.
Pago un premio e se accade qualcosa tra quelle previste dalla polizza, l'assicurazione interviene per tenere indenne l'assicurato dalle conseguenze economiche che quel sinistro ha causato.
In tema di assicurazioni per gli edifici in condominio, sovente note come polizze globale fabbricato (e simili), l'impresa assicuratrice interviene per pagare, al posto del condominio, i danni provenienti dalle parti comuni compresi tra quelli indicati nel contratto di assicurazione.
Assicurazione condominiale. La competenza dell'assemblea a decidere la stipula.
Si badi: l'intervento dell'assicurazione non elimina la responsabilità della compagine, ma semplicemente rivale l'assicurato del pregiudizio economico conseguente al sinistro. Insomma l'assicurazione paga perché il suddetto assicurato è responsabile e non si assume la responsabilità al suo posto. Se l'assicurazione ritiene che il sinistro non sia assicurato perché non compreso nella polizza o perché gli risulta non causato dall'assicurato (o da suoi beni) essa può rifiutarsi di pagare.
Il rifiuto può essere contestato e l'assicurazione citata in giudizio per il pagamento, ma rispetto al condomino, l'unico responsabile resterà sempre e solamente il condominio.
In definitiva, anche per dare risposta al nostro lettore, lui potrà agire contro il condominio per ottenere il risarcimento del danno e questo eventualmente sull'assicurazione (se del caso chiamandola in causa nello stesso giudizio).

L'amministratore è la figura con funzioni esecutive all’interno del condominio in quanto si occupa di amministrare e gestire i beni comuni, dare esecuzione alle delibere dell'assemblea condominiale, riscuotere i contributi dai condomini, redigere il Bilancio condominiale annuale e rappresentare il condominio nelle procedure giudiziarie nelle quali è parte.
La carica di amministratore di condominio dura un anno con rinnovo automatico, ma può essere revocata in ogni momento. La nomina, revoca e determinazione della retribuzione dell'amministratore spettano all'assemblea. Per la validità della nomina è sempre necessaria la maggioranza dei condomini (anche per delega) presenti all’assemblea stessa che rappresentino almeno la metà del valore dell’edificio (art. 1136 2° comma).
L'amministratore può essere revocato dal Tribunale, su istanza di almeno un condomino, quando vi sono fondati sospetti di gravi irregolarità nella gestione, quando non rende il conto per due anni consecutivi o quando, essendogli stato notificato un atto di citazione, non ne informa a tempo opportuno l'assemblea dei condomini.

Nell'ultima assemblea di condominio s'è deciso di sostituire l'amministratore per delle sue inadempienze; vista l'esperienza abbiamo chiesto al suo sostituto di procurarsi una polizza ad hoc per il nostro condominio.
Il nuovo amministratore non ha avuto alcun problema a farlo; adesso, però, sta sorgendo un problema. Nel preventivo dettagliato del compenso, che è stato presentato all'assemblea, egli ha inserito una voce relativa al premio da corrispondere all'assicurazione. In sostanza l'amministratore vuole che gli paghiamo noi la polizza.

E' lecito tutto ciò?
Questa la domanda che ci viene rivolta da un nostro Condòmino;
Ecco la risposta.
Assicurazione dell'amministratore condominiale
È una delle novità introdotte ormai quasi due anni orsono dalla riforma del condominio.
Il terzo comma dell'art. 1129 c.c. recita:
L'assemblea può subordinare la nomina dell'amministratore alla presentazione ai condomini di una polizza individuale di assicurazione per la responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato.
In dottrina (si veda Celeste, Scarpa, Riforma del condominio, Giuffré, 2012) s'è avanzata la tesi che la richiesta di polizza configuri una condizione sospensiva dell'efficacia della nomina. In buona sostanza fintanto che la persona nominata amministratore non abbia provveduto a stipulare la polizza richiesta, la nomina non può considerarsi efficace.
Il successivo quarto comma specifica che “l'amministratore è tenuto altresì ad adeguare i massimali della polizza se nel periodo del suo incarico l'assemblea deliberi lavori straordinari. Tale adeguamento non deve essere inferiore all'importo di spesa deliberato e deve essere effettuato contestualmente all'inizio dei lavori. Nel caso in cui l'amministratore sia coperto da una polizza di assicurazione per la responsabilità civile professionale generale per l'intera attività da lui svolta, tale polizza deve essere integrata con una dichiarazione dell'impresa di assicurazione che garantisca le condizioni previste dal periodo precedente per lo specifico condominio”.
Tale dichiarazione pare automatica ed indipendente rispetto ad ogni eventuale richiesta avanzata in tal senso dell'assemblea condominiale. Insomma siccome c'è la polizza (individuale o generale è indifferente) e siccome ci sono lavori straordinari, l'amministratore deve adeguare la polizza all'importo dei lavori.
Fin qui tutto abbastanza chiaro: l'assemblea può pretendere maggiori garanzia economiche dall'amministratore rispetto all'attività ordinaria e straordinaria. Se l'amministratore non provvede alla stipula di un contratto di assicurazione la nomina può non essere considerata valida; proprio per questo è bene subordinare l'avveramento della condizione ad un termine preciso (se non stipuli la polizza entro 10 gg. la nomina perde valore). Nel caso dei lavori straordinari, rispetto ai quali l'adeguamento è obbligatorio, se l'amministratore non vi provvede commette un inadempimento eventualmente sanzionabile con la revoca per gravi irregolarità.
Svolte queste doverose considerazioni di carattere generale, arriviamo al nocciolo della questione postaci dal nostro utente: chi paga che cosa?
In tal senso è utile ricordare che ai sensi dell'art. 1882 c.c. “l'assicurazione è il contratto col quale l'assicuratore, verso pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l'assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro, ovvero a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana”.
Siccome l'assicuratore interviene nell'interesse dell'assicurato, non direttamente del condominio, pare evidente che il premio debba essere pagato dall'amministratore che, poi, sarà il diretto beneficiario della polizza.
E se l'assemblea dovesse deliberare il rimborso del premio?
Ad avviso di chi scrive quella decisione dovrebbe considerarsi invalida: il pagamento del premio da parte dell'assemblea altro non è che un accollo di debito altrui (art. 1293 c.c.) che esula dalle competenze dell'assemblea (che riguardano la gestione e conservazione delle parti comuni), salvo diverso accordo tra tutti i condomini).

Tizio è proprietario di un magazzino ubicato nel piano interrato del condominio Alfa. Non utilizzandolo decide di locarlo a Caio che vi apre un circolo privato.

In questi casi, è bene ricordarlo, "nell'ipotesi di violazione del divieto contenuto nel regolamento condominiale di destinare i singoli locali di proprietà esclusiva a determinati usi, il condominio può richiedere la cessazione della destinazione abusiva sia al conduttore che al proprietario. Peraltro, nell'ipotesi di richiesta nei confronti del conduttore, il proprietario è tenuto a partecipare, quale litisconsorte necessario, nel relativo giudizio in cui si controverta in ordine all'esistenza ed alla validità del regolamento, in quanto le suddette limitazioni costituiscono oneri reali o servitù reciproche che, in quanto tali, afferiscono immediatamente al bene" (Cass. 8 marzo 2006 n. 4920). La compagine ha deciso di promuovere una causa contro il conduttore chiedendo la cessazione dell’attività.

Secondo l’accusa del condominio, infatti, quella specifica destinazione è vietata dal regolamento e comunque altera il decoro e la tranquillità dell’edificio.

La compagine vede riconosciute le proprie ragioni in primo grado (con ripercussioni anche sul rapporto locatizio) ma l’esito del giudizio viene completamente ribaltato nel giudizio d’appello. Da qui il ricorso per Cassazione.

Prima di entrare nel merito della vicenda, è bene ricordare quali possono essere i limiti che il regolamento condominiale può imporre all’uso delle unità immobiliari di proprietà esclusiva.

Quello assembleare nessuno.

Quanto a quello di natura contrattuale, è stato costantemente affermato che "l'autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che limitano il diritto dominicale di tutti o alcuni dei condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà, nell'interesse di tutto il condominio o di una sua parte, e che vietano, in particolare, a tutti o ad alcuni dei condomini di dare alle singole unità immobiliari una o più destinazioni possibili, ovvero li obbligano a preservarne le originarie destinazioni per l'utilità generale dell'intero edificio, o di una sua parte" (Cass. 19 ottobre 1998 n. 10335).

Ciò, tuttavia, non in modo indiscriminato. In buona sostanza, come ha egregiamente evidenziato la Cassazione, "le restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale, devono essere formulate in modo espresso o comunque non equivoco in modo da non lasciare alcun margine d'incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni (Cass. n. 23 del 07/01/2004). Trattandosi di materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze e non possono quindi dar luogo ad un'interpretazione estensiva delle relative norme" (Cass. 20 luglio 2009 n. 16832).

Insomma, se si dice vietato esercitare attività ludiche in limite potrebbe essere troppo generico. Se si dice “vietato aprire circoli privati al posto delle civili abitazioni”, il divieto riguarda le abitazioni e non le altre unità immobiliari. Di conseguenza per le restanti porzioni di piano se l’unico divieto è quello di evitare pregiudizio alla tranquillità ed al decoro, chi lamenta tale violazione dovrà provarla in giudizio senza poter chiedere la chiusura automatica del circolo privato. Questa, nella sostanza, la conclusione cui è giunta la Cassazione, con la sentenza n. 6825 dello scorso 19 marzo, che ha deciso la causa di cui si parlava in principio.

Fonte http://www.condominioweb.com/uso-delle-unita-immobiliari-di-proprieta-esclusiva-circolo-privato-al-posto-del.1435#ixzz3mMazGjUS
www.condominioweb.com

Le spese condominiali sono distinte in: ordinarie, necessarie per la gestione delle cose e dei servizi comuni (pulizia delle scale, ascensore, giardino, portineria, illuminazione delle parti comuni, vuotatura fosse biologiche e pulizie degrassatori, riscaldamento centralizzato) e straordinarie, relative ad interventi occasionali (rifacimento del tetto e dei solai, tinteggiatura della facciata del palazzo).
In linea generale per la ripartizione delle spese è necessario in primo luogo fare riferimento alle disposizioni contenute nel Regolamento di Condominio. Infatti è frequente che il Regolamento contenga delle specifiche tabelle da utilizzare per ripartire alcune spese senza tenere conto dei millesimi come accade, ad esempio, con riferimento al servizio di riscaldamento condominiale laddove il criterio tiene conto non tanto dei millesimi quanto piuttosto dei metri cubi riscaldati.
L'assemblea con apposita delibera stabilisce la percentuale da imputare in millesimi riscaldamento e quella da imputare sulla base dei consumi dei ripartitori. L'amministratore di condominio provvede a fine anno a far rilevare i consumi da tecnici autorizzati e a ripartire la spesa. Con questo accorgimento, l'onere è simile a quello che si avrebbe con il riscaldamento autonomo, con il vantaggio della maggiore efficienza (minori consumi) tipica delle caldaie condominiali
Il singolo condomino ha diritto a distaccarsi dall'impianto centralizzato di riscaldamento o condizionamento, senza che questo sia previsto espressamente dal regolamento condominiale ovvero previa delibera dell'assemblea, restando tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese di manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma.

LA RIFORMA DEL CONDOMINIO

La riforma si propone il riordino complessivo della disciplina del condominio dettata dal Codice Civile del 1942, considerata da tempo, bisognosa di una profonda revisione. La riforma non ha potuto tener conto dell'annosa stratificazione del contenzioso giudiziale in materia condominiale.



LE PRINCIPALI NOVITA'

Tra le maggiori novità si segnalano:
l'estensione ai supercondominii della disciplina codicistica sul condominio;
Il riconoscimento della facoltà del singolo condòmino di staccarsi dal riscaldamento centralizzato;
la previsione di un quorum meno impegnativo per deliberare le innovazioni rivolte a specifiche finalità di valorizzazione dell'edificio;
le nuove norme relative alla figura dell'amministratore;
una disciplina più puntuale in materia di convocazione dell'assemblea condominiale e di rendiconto annuale;
la previsione dell'impossibilità di vietare la detenzione di animali domestici;
il rafforzamento dell'azione contro i condòmini morosi e l'introduzione del beneficio della preventiva escussione dei condòmini inadempienti.





COSA CAMBIA

Il condominio:

Le disposizioni del Codice Civile non forniscono una definizione precisa di condominio ma si limitano ad elencare le parti che sono oggetto della proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio. La comunione sulle parti comuni si realizza in maniera forzosa: il condominio negli edifici viene ad esistenza automatica.
L'orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che il condominio costituisca un ente di gestione di fatto, capace di assumere obbligazioni e di essere titolare di diritti, e, dunque, dotato di una limitata capacità ed autonomia.
Per quanto non espressamente previsto, al condominio si applica, la disciplina della comunione.


Il condominio minimo:

Il numero dei condòmini assume rilievo sotto due specifici profili:
obbligatorietà della nomina dell'amministratore
obbligatorietà dell'adozione del regolamento.

Si discute se in presenza di due soli partecipanti, si possa parlare di condominio ovvero se ci si trovi di fronte ad una normale comunione: si parla, in questi casi, di condominio minimo.
La Cassazione, dopo diversi orientamenti, da ultimo ha confermato che laddove i proprietari dell'edificio siano solo due, si applicano le norme sul condominio e sul funzionamento dell'assemblea.



Il supercondominio:

Si tratta di complessi edilizi residenziali articolati in una pluralità di edifici, strutturalmente autonomi, ma accomunati dall'uso comune di opere comuni, come la portineria, i viali di accesso, i cortili, i parcheggi, i campi giochi ecc.
Al pari del condominio, anche il supercondominio viene ad essere automaticamente.
In tempi più recenti, la Corte di Cassazione ha espressamente affermato l'applicabilità al supercondominio delle norme sul condominio negli edifici.



Cosa cambia

La nuova disciplina sul condominio si applica anche ai condomini complessi o supercondomini e ai cd. condomini orizzontali.
La novità introdotta conferma la posizione seguita dai giudici, i quali nel corso del tempo si sono dovuti occupare dei problemi creati dalla nascita di quei complessi edilizi sempre più articolati, distinti in diversi corpi di fabbrica dotati di autonomia strutturale, ma caratterizzati dalla presenza di una serie di opere e servizi comuni a tutto il complesso edilizio.



Parti comuni e presunzione di condominialità:

La norma è stata oggetto della novella legislativa realizzata dalla riforma del 2012: il recente intervento legislativo non ha apportato innovazioni particolarmente significative. Infatti è possibile scorgere una sostanziale conferma dell'impianto codicistico originario e una più articolata definizione delle “parti comuni” dell'edificio, che ha tenuto conto delle innovazioni tecnologiche che hanno radicalmente trasformato il quadro dei servizi e delle utilità che si ritengono essenziali alla funzionalità abitativa dell'appartamento.
Pertanto, ai sensi del nuovo Art. 1117 c.c. sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio:
1. tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune
2. le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune
3. le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune
La tripartizione dei beni comuni corrisponde alla tradizionale suddivisione tra:
beni comuni necessari
beni comuni di pertinenza
beni comuni accessori
Secondo l'orientamento maggioritario l'Art. 1117 c.c. conterrebbe una presunzione di comunione delle parti dell'edificio che servono all'uso comune ed al godimento comune di tutti i condòmini: si tratterebbe di una presunzione semplice.
Si sostiene che la presunzione di condominialità non possa essere superata dal semplice uso esclusivo della cosa, ma è necessario che tale uso particolare trovi la sua giustificazione nelle caratteristiche del bene, che lo rendano inidoneo all'utilizzo collettivo: a tale riguardo ciò che rileva è la destinazione obiettiva della cosa.


Il suolo e sottosuolo

IL SUOLO
Il suolo è l'area circoscritta dalle fondamenta e dai muri perimetrali, su cui poggia l'edificio, e rispetto al quale si suole distinguere un sottosuolo ed un soprassuolo.
La giurisprudenza non ha fornito una definizione sempre univoca del suolo, affermando che il livello dell'area qualificabile come suolo corrisponderebbe a quello del terreno o del piano di campagna circostante l'edificio, che si trova immediatamente sottostante al livello del pavimento o al piano artificiale di calpestio dei vari terreni; altre volte, identificando il suolo nell'area nella quale sono infisse le fondazioni, ubicata sotto il piano di cantinato più basso: accogliendo quest'ultima definizione, la conseguenza sarebbe che i vani situati tra piano terreno ed il suolo potrebbero considerarsi comuni solo ove risultino direttamente destinati all'uso o di godimento comune.

IL SOTTOSUOLO
Si ritiene che il sottosuolo appartenga in comunione pro indiviso a tutti i condòmini, anche avuto riguardo alla funzione di sostegno che esso contribuisce a svolgere per la stabilità dell'edificio. Recentemente, la Corte di Cassazione ha ribadito che “ Il sottosuolo, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell'area superficiale che è alla base dell'edificio condominiale, va considerato di proprietà comune, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condòmini. Quindi, un edificio include, oltre ai vani esistenti nel soprassuolo anche quanto realizzato al livello delle fondamenta.
Ogni condòmino può usare il sottosuolo nel modo che ritiene più opportuno, purchè non ne alteri la destinazione o impedisca agli altri condòmini un pari uso. Pertanto, è da ritenersi illegittimo il comportamento del proprietario del piano terreno, che abbia eseguito opere di escavazione nel sottosuolo per ricavare nuovi locali o ampliare quelli preesistenti.





Fondazioni, muri maestri, pilastri e travi portanti

Tra le fondazioni rientrano non solo le parti dei muri maestri site al di sotto dell'area, ma tutte le opere realizzate nel sottosuolo allo scopo di reggere ed elevare l'edificio: scavi, opere di consolidamento, di rincalzo, ecc. Le fondazioni non riguardano soltanto le opere infisse nel suolo in senso verticale, ma anche quelle a sviluppo orizzontale.
La presunzione di condominialità riguarda i muri maestri, i quali costituiscono la struttura portante del fabbricato e si identificano con i muri perimetrali che circoscrivono la proprietà dell'edificio rispetto alla superficie esterna.
La riforma del condominio, ha espressamente ricompreso tra le parti comuni i pilastri e le travi portanti.
In mancanza di titolo contrario, i muri maestri devono ritenersi comuni per tutta la loro estensione, dalle fondamenta alla copertura dell'edificio. Conseguentemente, trattandosi di un bene comune, si riconosce al singolo condòmino la facoltà di utilizzare il muro perimetrale per esigenze personali e per le proprie utilità. L'esercizio di tale facoltà non può compromettere però l'uso paritario da parte degli altri condòmini, né, pregiudicare la stabilità o la sicurezza del fabbricato, il suo decoro o la simmetria architettonica.
E' vietato praticare aperture nel muro comune per mettere in comunicazione locali di proprietà esclusiva con altro immobile ad esso estraneo. Viceversa, sono ammesse (e di regola non richiedono apposita autorizzazione assembleare) le aperture volte a mettere in comunicazione un bene condominiale.
Possono costituire parti comuni del condominio anche opere esterne al muro perimetrale, come ad esempio, il muraglione di contenimento che circonda l'edificio.
La presunzione di condominialtà non trova applicazione in relazione ai muri di tramezzo, privi di funzione portante, ma solo divisoria, siano essi siti all'interno di un solo appartamento ovvero dividano due unità immobiliari.
A seguito della novella dell'art.1117 c.c. realizzata dalla riforma del condominio, la facciata, intesa come la parte più esterna dell'edificio è ora espressamente qualificata come parte comune.
Sulle facciate possono aprirsi, oltre che le finestre delle singole unità immobiliari, anche i balconi, i quali svolgono una duplice funzione: rappresentano la proiezione dell'appartamento cui accedono e sono di proprietà esclusiva; svolgono una funzione di valorizzazione estetica dello stabile.
La trasformazione della veranda in balcone rientra nel diritto del singolo proprietario, fermo restando il divieto di arrecare pregiudizio al decoro architettonico dell'edificio e di ledere i diritti degli altri condòmini.
Sono invece, considerati parti comuni i balconi di cui sono dotati le scale condominiali, essendo accessibili unicamente da queste ed avendo una funzione lucifera e di areazione.
Sui frontalini in passato si è ritenuto che gli stessi facessero parte integrante del balcone per cui appartenevano in proprietà esclusiva ai proprietari dell'unità immobiliare. La Corte di Cassazione ha successivamente sostenuto la loro prevalente funzione ornamentale: conseguentemente, le relative spese devono essere ripartite tra tutti i condòmini.

COSA CAMBIA

La riforma del condominio, integrando l'art.1117 c.c. ha espressamente ricompreso tra le parti comuni i pilastri e le travi portanti.



Tetti, lastrici solari, terrazze e sottotetti

Tetto e lastrico solare sono accomunati dal fatto di assolvere alla medesima funzione di copertura dell'edificio. Tuttavia mentre il tetto è un tipo di copertura che presenta una superficie più o meno arcuata o inclinata, il lastrico, invece, ha struttura piatta ed è solitamente praticabile.
Nonostante la presunzione di condominialità, il tetto può appartenere in proprietà esclusiva ad un condòmino o ad un terzo. Lo stesso vale per il lastrico solare, che si presume comune, salvo titolo contrario. La condominialità non è esclusa dal mero uso esclusivo del lastrico: l'art. 1126 c.c. Prevede espressamente che, ai fini della ripartizione delle spese, il lastrico possa essere di uso esclusivo di uno o più condòmini. In particolare, la norma dispone che, nel caso in cui il lastrico è di proprietà esclusiva, il titolare è tenuto a rispettare la funzione di copertura dello stabile e può apportarvi solo quelle modifiche che siano dirette al miglior godimento del bene. Anche quando il lastrico è di proprietà comune, i condòmini sono legittimati a farne un uso particolare. Nello specifico, è ammessa l'installazione di antenne radiotelevisive e di antenne ricetrasmittenti da radio amatore ed il posizionamento di recipienti dell'acqua, tubazioni e pannelli solari, nonché, a seguito della riforma, è espressamente consentita l'installazione di impianti non centralizzati di produzione di energia da fonti non rinnovabili.
Il proprietario dell'ultimo piano ha diritto di sopraelevare , nel rispetto delle condizioni statiche e delle linee architettoniche dell'edificio, e senza arrecare una notevole diminuzione di area e di luce ai piani sottostanti: l'art. 1127 c.c. Obbliga il condòmino che intende avvalersi di tale facoltà di corrispondere agli altri condomini un indennità pari al valore attuale dell'area da occuparsi con la nuova opera, diviso per il numero totale dei piani, compreso quello da edificare e detratto l'importo della quota a lui spettante.
La funzione di copertura dell'edificio può essere svolta anche dalla terrazza, detta terrazza di copertura, dotata di caratteristiche strutturali simili a quelle del lastrico solare. Anche la terrazza di copertura può essere oggetto di proprietà esclusiva in presenza di un titolo idoneo.
Diversa dalla terrazza di copertura è la terrazza a livello, la cui funzione, non è tanto quella di coprire l'edificio sottostante, quanto quella di dare affaccio ed ulteriori comodità all'appartamento a cui è collegata e del quale rappresenta proiezione verso l'esterno: essa, pertanto, non rientra tra le parti comuni.
La nuova formulazione dell'Art 1117 c.c. , introdotta dalla riforma del condominio, menziona espressamente, tra le parti comuni, i sottotetti destinati, all'uso comune. Con il termine sottotetto si intende la parete immediatamente inferiore al tetto, e cioè lo spazio lasciato libero tra la copertura dell'edificio ed il solaio. Esso si distingue in “mansarda” (vano abitabile) , “soffitta” ( locale adibito al ripostiglio o stenditoio) ,e “camera d'aria”.
La giurisprudenza ha distinto due ipotesi di regime giuridico applicabile affermando che il sottotetto deve considerarsi pertinenza dell'ultimo piano, e quindi proprietà esclusiva del suo titolare; se, invece, si presenta come mansarda o soffitta, il sotto tetto deve ritenersi oggetto di proprietà comune quando è destinato all'uso collettivo.

COSA CAMBIA

La riforma del condominio ricomprende espressamente tra le parti comuni i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune.



Scale e portoni d'ingresso

Le scale costituiscono le opere per mezzo delle quali è possibile l'accesso ai vari piani dell'edificio: esse comprendono non solo i gradini e le ringhiere, ma anche i parapetti, le strutture di sostegno, i pianerottoli, la tromba, le aperture e gli accessori che permettono la funzione naturale.
La giurisprudenza ritiene pacifica l'appartenenza delle scale a tutti i condòmini, compresi quelli del pianoterra. Pertanto, anche i proprietari di unità immobiliari site al pianoterra ed aventi accesso autonomo ed indipendente, sono comproprietari delle scale. La giurisprudenza ritiene legittima l'apertura di porte di accesso alle scale o di finestre, invece vieta gli usi della scala a favore di proprietà estranee a edificio condominiale, dal momento che ciò comporterebbe che la costituzione di una servitù a carico della proprietà condominiale.
La manutenzione delle scale spetta ai proprietari delle unità immobiliari: la relativa spesa è ripartita tra essi, per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per l'altra metà esclusivamente in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano dal suolo.
I portoni di ingresso sono le porte che mettono in comunicazione l'interno dell'edificio con la strada. Si tratta di parti interne dello stabile, caratterizzate, dalla funzione di consentire l'accesso agli appartamenti: il relativo regime giuridico, pertanto, è assimilato a quello delle scale.

Il cortile e le aree destinate a parcheggio

Il cortile è quell'area scoperta che ha la funzione di fornire aria e luce alle unità immobiliari dell'edificio condominiale. Il cortile può svolgere anche altre funzioni, accessorie e sussidiarie ( ad esempio, permettere l'accesso ai singoli appartamenti di proprietà esclusiva, l'accesso o la sosta dei veicoli ecc.).
In mancanza di titolo contrario, il cortile si considera bene comune. La presunzione di condominialità può essere superata, oltre che con il titolo, anche con la particolare destinazione del bene, qualora esso risulti essere destinato a servire in modo esclusivo all'uso soltanto di una parte dell'edificio.
I singoli condòmini sono legittimati a fare, della colonna d'aria sovrastante il cortile, l'uso che ritengono più opportuno, purchè non alterino la destinazione e l'uso paritario. Si considera, legittima l'apertura di vedute e balconi e l'ingrandimento o lo spostamento delle vedute preesistenti.
Tra i vari possibili usi del cortile, assumono particolare rilevanza quelli relativi alla sosta ed al parcheggio di autovetture.
A tale riguardo, occorre distinguere il caso in cui il cortile sia stato destinato a parcheggio di autovetture ab origine, dal caso in cui il cortile, originariamente destinato a fornire soltanto aria e luce alle unità immobiliari venga successivamente destinato a parcheggio. Nel primo caso tutti i successivi acquirenti devono accettare la destinazione a parcheggio. Nel secondo caso, se il regolamento non dispone nulla in proposito, qualunque condòmino può opporsi a questa destinazione, richiedendo l'intervento dell'amministratore ed, in ultima analisi, dell'autorità giudiziaria.
Non è preclusa la facoltà di destinare il cortile a parcheggio, in un momento successivo alla costituzione del condominio: in questo caso occorrerà una deliberazione assembleare, da adottarsi con la maggioranza degli intervenuti, che rappresenti almeno i due terzi del valore dell'edificio, se il cambiamento di destinazione viene considerato innovazione; in caso contrario, sarà sufficiente un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio. La Cassazione si è pronunciata a favore di quest'ultima opzione.
Se il regolamento condominiale espressamente vieti il parcheggio degli autoveicoli nel cortile comune, in questo caso, “ la norma regolamentare frappone un vero ostacolo all'esercizio di facoltà spettanti ai condòmini, come tali, sulle parti comuni, ostacolo che si risolve in una compressione dello stesso diritto di proprietà. I condòmini, accettando con i singoli atti di acquisto il regolamento di condominio precostituito e con esso la disposizione che impone il divieto in argomento.
Per eliminare il divieto regolamentare del passaggio o della sosta di autoveicoli nel cortile comune è necessaria una delibera presa all'unanimità.
Il nuovo testo del.art.1117, n.2, c.c. include espressamente tra le parti che si presumono comuni le aree destinate a parcheggio. La riforma del condominio si è interessata dell'argomento laddove ha modificato anche la disciplina delle innovazioni: ed infatti, l'art.1120, co.2, n.2, c.c. , prevede una disciplina privilegiata per l'approvazione delle innovazioni dirette a realizzare “parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio” (richiedendo, la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio, anziché la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio).
La disciplina codicistica delle aree destinate a parcheggio viene ad aggiungersi ad una particolare disciplina pubblicistica vigente in materia.

COSA CAMBIA

La riforma del condominio ricomprende espressamente tra le parti comuni le aree destinate a parcheggio.
L'approvazione assembleare delle innovazioni dirette a realizzare parcheggi pertinenziali richiede la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio, anziché la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio.



Locali per servizi e la portineria

I locali per i servizi sono suscettibili di utilizzazione individuale ed esclusiva, atteso che la loro destinazione al servizio collettivo non si manifesta in termini di assoluta necessità. Tali locali si presumono comuni se ed in quanto siano funzionalmente destinati al godimento della collettività condominiale.
Con particolare riferimento alla portineria, si è sostenuto che, ove i locali non siano più adibiti all'uso condominiale, troverebbe applicazione la disciplina comune della comunione. Nell'ipotesi inversa, cioè quando si intenda istituire il servizio di portierato in un condominio originariamente sprovvisto, sarà necessaria una delibera assembleare approvata dalla maggioranza prevista dall'art. 11136, co. 5, c.c. , in tema di innovazione.

Istallazioni e condutture

L'art. 1117 c.c. , n. 3, qualifica come parti comuni una serie di opere, installazioni ed impianti, secondo un elencazione esemplificativa e non esaustiva, tenendo conto delle più rilevanti innovazioni tecnologiche nell'ambito dei servizi e delle utilità che si ritengono essenziali alla funzionalità abitativa degli appartamenti.
Ed infatti, il nuovo testo dell'art. 1117, n. 3, c.c. , assimila allo stesso regime giuridico i sistemi centralizzati di condizionamento e gli impianti per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo.
La norma specifica che, in relazione a dette opere, la presunzione di condominio si estende fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condòmini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.
É evidente che l'individuazione della natura condominiale assume particolare importanza in relazione al riparto delle spese di manutenzione e riparazione degli stessi.
Con particolare riguardo all'ascensore installato originariamente in uno stabile, la giurisprudenza ha affermato la sua appartenenza a tutti i condòmini, consentendo ad essi non solo di accedere agli appartamenti dei piani superiori, ma anche di raggiungere parti comuni, quali il tetto o il lastrico solare. Se l'istallazione è successiva, la proprietà appartiene solo ai condòmini che hanno contribuito alla relativa spesa.
La manutenzione degli ascensori spetta ai proprietari delle unità immobiliari a cui servono: la relativa spesa è ripartita tra essi, per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per l'altra metà esclusivamente in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano dal suolo.



Le antenne televisive

Anche prima della riforma del condominio, si è ritenuto che l'assemblea potesse vietare l'istallazione di antenne ed impianti esclusivi solo a condizione che gli stessi impedissero l'uso del terrazzo da parte degli altri condòmini o arrecassero un qualsiasi altro pregiudizio ad una delle parti comuni: al di fuori di questa ipotesi, una delibera che ne vietasse l'istallazione è stata considerata nulla.
Tale soluzione trovava fondamento normativo nella regolamentazione pubblicistica vigente in materia di antenne per la ricezione dei segnali radiofonici e televisivi.
In tempi più recenti una disciplina speciale in materia di antenne paraboliche o satellitari ad utilizzazione collettiva, ha disposto che “al fine di favorire lo sviluppo e la diffusione di nuove tecnologie di radiodiffusione e satellite, le opere di installazione dei nuovi impianti sono innovazioni necessarie ai sensi dell'art. 1120, co. 1, c.c. Per l'approvazione delle relative deliberazioni si applica l'art. 1136, co. 3, dello stesso codice”.
Successivamente, è stato emanato il D.Lgs. 259/2003, cd. “Codice delle comunicazioni elettroniche” che ha introdotto limitazioni legali alla proprietà, stabilendo che, negli impianti di comunicazione elettronica, i fili o cavi senza appoggio possono passare, anche senza il consenso del proprietario, sia al di sopra delle proprietà pubbliche o private, sia dinanzi a quei lati degli edifici ove non siano finestre od altre aperture praticabili a prospetto. Il proprietario od il condòmino non può opporsi all'appoggio di antenne, di sostegni, nonché al passaggio di condutture, fili o qualsiasi altro impianto, nell'immobile di sua proprietà, occorrente per soddisfare le richieste di utenza degli inquilini o condòmini.
La recente riforma del condominio è intervenuta in materia di antenne ed impianti di ricezione, introducendo, nel codice civile, un'apposita disciplina. Gli impianti per la recezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, ed i relativi collegamenti rientrano, ora, tra le parti comuni del condominio.
Come in passato, la presenza di impianti centralizzati di ricezione televisiva non pregiudica la facoltà dei singoli condòmini di installare antenne ed impianti esclusivi. Ed infatti, l'art. 1122bis, introdotto ex novo, prevede espressamente tale facoltà.
Se la loro installazione rende necessarie delle modifiche delle parti comuni, l'interessato ne dà comunicazione all'amministratore, indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi.


COSA CAMBIA

La riforma del condominio ricomprende espressamente tra le parti comuni gli impianti per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, ed i relativi collegamenti. L'approvazione assembleare delle innovazioni dirette a realizzare tali impianti richiede la maggioranza degli intervenuti ad almeno la metà del valore dell'edificio, anziché la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio.
I singoli condòmini possono installare impianti esclusivi in modo da recare il minor pregiudizio alle parti comuni ed alle unità immobiliari di proprietà individuale, e preservando, in ogni caso, il decoro architettonico dell'edificio.


UTILIZZAZIONE DELLE PARTI COMUNI

Diritti dei partecipanti sulle parti comuni

Ai sensi dell'art. 1118, co.1, c.c. , nella nuova formulazione introdotta dalla legge di riforma del condominio del 2012, “ il diritto di ciascun condòmino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell'unità immobiliare che gli appartiene”.
Tale disposizione introduce un elemento di differenziazione tra la disciplina della comunione e quella del condominio. Mentre l'art. 1101 c.c. stabilisce che le quote dei partecipanti alla comunione si presumono uguali, la norma in commento prevede, invece, un rapporto di proporzionalità tra il diritto di ciascun condòmino ed il valore della porzione di edificio in proprietà esclusiva.
Prima della recente riforma, la disciplina del condominio non conteneva neanche una definizione esaustiva dei limiti dei diritti dei singoli condòmini, per cui è toccato alla giurisprudenza distinguere tra gli atti preclusi al singolo partecipante.
La giurisprudenza ha utilizzato le norme codicistiche sulla comunione, ed in particolare, l'art.1102 c.c. , a norma del quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne uso secondo il loro diritto.
Conseguentemente, è stato riconosciuto a ciascun condòmino il diritto di utilizzare le cose comuni e trarre da esse tutte le possibili utilità, senza bisogno di alcuna preventiva delibera assembleare, ed è stata riconosciuta a ciascun condòmino la facoltà di apportare le modificazioni necessarie per il maggior godimento della cosa.
La giurisprudenza ha ritenuto legittimo l'accordo tra i condòmini, all'unanimità, con cui si attribuisce ad un solo condòmino l'uso della cosa comune o, al contrario, con cui si esclude uno o più condòmini dal diritto di utilizzare la cosa comune.
Quanto al trasferimento dei diritti sulla cosa comune, la giurisprudenza ha costantemente escluso che il condominio possa cedere, locare o dare in godimento il proprio diritto sulle parti comuni separatamente da quello sulla propria unità immobiliare.



Rinuncia dei diritti sulla cosa comune

L'art.1118, co. 2, c.c. , nella sua formulazione originaria,così disponeva: “ Il condòmino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione.”
La legge di riforma del condominio, con la novella dell'art. 1118 c.c. , ha definitivamente risolto la questione, escludendo espressamente la facoltà, per il singolo condòmino di rinunciare al proprio diritto sulle parti comuni. Al tempo stesso, viene confermato che il condòmino non può sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni.

COSA CAMBIA

Sono stati distinti i principi dell'irrinunciabilità del diritto dei condòmini sulle parti comuni e dell'impossibilità di sottrarsi agli oneri ad essi connessi.


Il distacco dall'impianto di riscaldamento centralizzato

In passato, la trasformazione dell'impianto centralizzato di riscaldamento in impianti autonomi richiedeva l'approvazione all'unanimità.
Successivamente, l'art.26, co. 5, della L.9 gennaio 1991, n.10, ha espressamente stabilito che, “ per le innovazioni relative all'adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore e per il conseguente riparto degli oneri di riscaldamento in base al consumo effettivamente registrato, l'assemblea di condominio decide a maggioranza, in deroga agli articoli 1120 e 1136 del Codice Civile”.
In tempi più recenti, la Cassazione ha ritenuto ammissibile il distacco, senza la necessità di previa autorizzazione assembleare, purchè lo stesso avvenga in modo tale da non pregiudicare la regolarità del servizio e venga mantenuto l'equilibrio termico dell'edificio; il rinunziante, pur essendo esonerato dal concorrere alle spese relative al consumo del combustibile, fosse comunque tenuto a concorrere al pagamento delle spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione, rimanendone comproprietario.
Questo recente orientamento giurisprudenziale è stato integralmente recepito dalla legge di riforma del condominio, che, riscrivendo l'art.1118 c.c. , ha espressamente previsto la facoltà di ciascun condòmino di rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento.

COSA CAMBIA

I singoli condòmini non possono rinunciare ai propri diritti sulle parti comuni.
Essi, tuttavia, possono rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condòmini, restando comunque obbligati al pagamento delle spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione.



Modificazioni delle destinazioni d'uso

In passato, la giurisprudenza ha individuato sulla base della previsione di cui all'art.1102 c.c. in tema di comunione, una serie di limitazioni.
L'orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che il diritto di utilizzazione della cosa comune non avrebbe potuto comportare una modifica della destinazione d'uso delle parti comuni: ed infatti, non può più parlarsi di “uso” della cosa, ma si è in presenza di una “innovazione”, come tale vietata al singolo condòmino e regolata dall'art.1120 c.c.
Iniziando dal primo limite, si ha alterazione della destinazione in presenza di modifiche tali da rendere impossibile o, comunque, variare sensibilmente la funzione originaria del bene.
Quanto al secondo limite, relativo al “pari uso” degli altri condòmini consiste nel divieto, di compromettere il diritto degli altri partecipanti, in modo da renderne assai meno agevole l'uso od a escluderne il diritto. Pertanto, la nozione di “pari uso” della cosa comune non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo della cosa comune da parte di tutti i condòmini a condizione che, questa sia compatibile con i diritti degli altri: il “ pari uso” degli altri condòmini consiste, quindi, in qualsiasi altro miglior uso che i condòmini avrebbero potuto fare in un'altra parte della cosa comune.
A seguito della riforma del condominio, approvata definitivamente il 20 novembre 2012, la materia è diventata oggetto di una specifica disciplina, contenuta negli artt. 1117ter e 1117quater c.c. , introdotti ex novo. La scelta di dedicare apposite disposizioni alle modificazioni d'uso delle parti comuni risulta quanto mai opportuna, atteso che in questo ambito si concentra, una percentuale considerevole del contenzioso in materia condominiale.
In particolare, l'art.1117quater c.c. vieta espressamente lo svolgimento unilaterale, da parte dei singoli condòmini di attività idonee ad incidere negativamente ed in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni. In questo caso, l'amministratore o gli altri condòmini possono diffidare l'esecutore e possono chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione.
L'art.1117ter c.c. , rubricato “ modificazioni delle destinazioni d'uso” disciplina la fattispecie inversa, e cioè l'ipotesi in cui sia la collettività condominiale a voler mutare l'originaria destinazione della cosa comune. In forza di tale disposizione “Per soddisfare esigenze di interesse condominiale, l'assemblea, con un numero di voti che rappresenti i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell'edificio, può modificare la destinazione d'uso delle parti comuni.
La convocazione dell'assemblea deve essere affissa per non meno di 30 giorni consecutivi nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati e deve effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici, in modo da prevenire almeno 20 giorni prima della data di convocazione.
La convocazione dell'assemblea, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso.
La deliberazione deve contenere la dichiarazione espressa che sono stati effettuati gli adempimenti di cui ai precedenti commi.
Con l'art.1117ter, introdotto ex novo dalla riforma, per la modifica delle destinazioni d'uso delle parti comuni si introduce innanzitutto, una procedura rafforzata riguardo alla convocazione dell'assemblea: a differenza delle convocazioni assembleari ordinarie, che richiedono almeno 5 giorni di preavviso, laddove all'ordine del giorno sia prevista la modifica di parti comuni dell'edificio, tra l'avviso di comunicazione ed il giorno dell'adunanza assembleare dovranno trascorrere non meno di 30 giorni.
In secondo luogo, il legislatore richiede, ora, una doppia maggioranza, pari ai quattro quinti dei partecipanti che rappresentano i quattro quinti del valore dell'edificio. In questo modo si è voluto assicurare che tali delibere, rispecchino la volontà prevalente (sia pure non unanime) dei partecipanti del condominio.





COSA CAMBIA

Perchè possa procedersi alla modifica della destinazione d'uso delle parti comuni,è ora richiesta la maggioranza dei quattro quinti dei partecipanti che rappresentino i quattro quinti del valore dell'edificio.



Indivisibilità

La legge di riforma del condominio ha modificato anche l'art. 1119 c.c. , a norma del quale “le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condòmino”.
Come chiarito dalla giurisprudenza, la maggiore o minore comodità di uso non solo va valutata con riferimento alla originaria consistenza, ma deve essere considerata nella sua funzionalità piuttosto che nella sua materialità.
Sulla base di tali principi è stato considerato inammissibile il progetto di divisione di una terrazza comune che avrebbe privato il condominio assegnatario di una porzione della veduta sul mare.
Il nuovo testo dell'art. 1119 c.c. Richiede espressamente, perchè possa procedersi alla divisione, il “consenso di tutti i partecipanti al condominio”.
Quest'ultima precisazione non ha carattere innovativo, dal momento che la giurisprudenza ha affermando che la divisione poteva essere decisa solo con apposita convenzione tra i condòmini.
In presenza di una volontà unanime dei partecipanti al condominio è possibile, vendere o donare parti comuni a terzi.


COSA CAMBIA

Perché possa procedersi alla divisione delle parti comuni,è ora espressamente richiesto il consenso di tutti i condòmini.



Nozioni e Quorum deliberativi

Per “innovazione” si intende una particolare modificazione della cosa comune.
Non si tratta di semplici modifiche, ma di interventi tali da rendere nuova la cosa. La giurisprudenza ritiene ammissibili le innovazioni che comportino un maggior godimento o una maggiore utilità solo per alcuni condòmini.
L'istallazione di un ascensore è sempre stata considerata un'innovazione, in quanto diretta al miglioramento, all'uso più comodo ed al maggior godimento delle cose comuni.
La giurisprudenza esclude, invece, ad esempio che sia un'innovazione la sostituzione dell'impianto preesistente e non più idoneo all'uso.
Le innovazioni sono ammesse a condizione che venga adottata una delibera assembleare a maggioranza qualificata.
La riforma del condominio ha innovato rispetto all'originaria regolamentazione, introducendo una disciplina privilegiata.
Il secondo comma dell'art. 1120, prevede che i condòmini, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio, possano disporre le innovazioni.





COSA CAMBIA

L'approvazione assembleare delle innovazioni richiede la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà dell'edificio.



La rimozione delle barriere architettoniche

In passato, si è ritenuto che l'istallazione di ascensori o servo-scala per i portatori di handicap da parte di un condòmino fosse soggetta non alla disciplina dell'art. 1120 c.c. , ma a quella dell'art. 1102 c.c. Ovvero, ciascun partecipante ha la facoltà di servirsi della cosa comune a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto: il singolo condòmino avrebbe potuto installare impianti destinati ai portatori di handicap.
La giurisprudenza in merito è giunta a conclusioni contrastanti. L'istallazione di simili impianti, in alcuni casi, è stata considerata ammissibile, anche la dove avrebbe comportato un minor godimento delle parti comuni; altre volte, è stata ritenuta illegittima, qualora ne fosse derivato una notevole menomazione all'uso delle parti comuni, ovvero a quelle di proprietà esclusiva.
La riforma del condominio, ha ribadito l'importanza e la funzione sociale degli interventi volti ad eliminare le barriere architettoniche, prevedendo una disciplina privilegiata per la deliberazione di tali opere, essendo sufficiente, la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio.






COSA CAMBIA

L'approvazione assembleare delle innovazioni dirette alla rimozione delle barriere architettoniche richiede la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio.



Innovazioni vietate

La recente riforma del condominio, ha mantenuto il divieto di procedere ad innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso. Si esclude, invece, che la destinazione a parcheggio di un area di giardino condominiale dia luogo ad una innovazione vietata dall'art. 1120 c.c.
In merito alle nozioni di stabilità o di sicurezza del fabbricato, più dibattuta è stata la nozione di decoro. In ogni caso, c'è concordia, nel ritenere che il decoro, risulti dall'insieme delle linee e dei motivi architettonici ed ornamentali che conferiscono all'edificio una determinata fisionomia.
Il decoro può essere individuato nell'equilibrio armonico, che caratterizza la fisionomia dello stabile condominiale ed il suo mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica delle modifiche. Ciascun partecipante al condominio può agire in giudizio per la tutela del decoro architettonico.
Come chiarito dalla giurisprudenza, l'alterazione del decoro può derivare anche dalle modifiche dell'originario aspetto delle singole parti dell'edificio, purché tali interventi siano suscettibili di riflettersi sull'intero stabile.
Esiste, al riguardo, un'ampia casistica: sono state considerate vietate per alterazione del decoro architettonico, la trasformazione di finestra sulla strada in porta finestra e la trasformazione del balcone in veranda.
Per quanto riguarda, invece, il concetto di inservibilità della cosa comune, essa non può consistere nel semplice disagio subìto rispetto alla sua normale utilizzazione ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res comunis.
Secondo la giurisprudenza, il divieto di procedere ad innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità del fabbricato è derogabile con l'unanimità dei condòmini.

Innovazioni gravose o voluttuarie

L'art.1121 c.c. prevede una disciplina speciale per le innovazioni gravose o voluttuarie, distinguendo due ipotesi:
se l'innovazione consiste in opere, impianti o manufatti suscettibili di utilizzazione separata, i condòmini che non intendono trarne vantaggio sono esonerati da qualsiasi contributo nella spesa;
se, invece, l'utilizzazione separata non è possibile, l'innovazione non è consentita, a meno che la maggioranza che l'ha accettata intenda sopportarne integralmente la spesa.
Le innovazioni per le quali è consentito al singolo condòmino di sottrarsi alla relativa spesa, sono quelle che riguardano impianti suscettibili di utilizzazione separata e che hanno natura voluttuaria (prive di utilità) ovvero risultano molto gravose (caratterizzate da una notevole onerosità). L'onere della prova di tali estremi grava sul condòmino interessato.
Il condòmino dissenziente, che non partecipa alla spesa, non diventa proprietario dell'opera.

Opere su parti di proprietà o uso individuale

Il legislatore del 2012 ha previsto il medesimo regime di tutela delle parti comuni, sia che si tratti di attività poste in essere dai singoli condòmini direttamente sulle parti comuni, sia che si tratti di interventi eseguiti sulle cose di proprietà esclusiva.
Rispetto alla precedente formulazione, il nuovo testo dell'art.1122 c.c. amplia e specifica i limiti che ciascun condòmino incontra nel suo potere di disporre e di utilizzare la propria unità immobiliare. Essi sono:
la variazione della destinazione d'uso delle parti comuni;
il danno delle parti comuni;
la diminuzione del valore delle parti comuni;
il pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza ed al decoro architettonico dell'edificio.
Oltre a tutto ciò, è stato anche previsto che dell'effettuazione di tale opere da parte del singolo sia data in ogni caso una preventiva notizia all'amministratore.

Impianti di videosorveglianza sulle parti comuni

L'articolo 1122ter c.c. , introdotto ex novo dalla riforma del condominio, disciplina l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti di videosorveglianza, prescrivendo la previa delibera assembleare approvata con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio.
L'utilizzazione di un sistema di ripresa di aree condominiali da parte di un condominio oppure da parte di più condòmini è soggetta all'applicazione del “Codice in materia di dati personali”: l'installazione, in questi casi, è ammessa esclusivamente in relazione all'esigenza di preservare la sicurezza di persone e la tutela di beni da concrete situazioni di pericolo.
Il garante ha specificato in numerosi provvedimenti, che, in questi casi, deve compiersi una valutazione di proporzionalità, da effettuarsi anche laddove i sistemi di videosorveglianza non prevedano la registrazione dei dati, in rapporto ad altre misure già adottate o da adottare.
L'installazione ad iniziativa di singoli condòmini non ricade nell'ambito di applicazione del Codice della privacy quando i dati non sono comunicati sistematicamente o diffusi.
Secondo il Garante della privacy, al fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata, l'angolo visuale delle riprese deve essere limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza o antistanti l'abitazione di altri condòmini.
La giurisprudenza, anche prima della recente riforma, ha escluso che il singolo condòmino potesse, senza previa delibera assembleare, installare a propria sicurezza un impianto di videosorveglianza con un fascio di captazioni di immagini idoneo a riprendere spazi comuni o, addirittura, spazi esclusivi di altri condòmini.
La riforma del condominio, ha inteso risolvere definitivamente alcune questioni particolarmente controverse.
L'articolo 1122ter, ha confermato l'ammissibilità di delibere assembleari aventi ad oggetto l'installazione sulle parti comuni dell'edificio di impianti di videosorveglianza, specificando che la relativa adozione richiede un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio.

COSA CAMBIA

L'installazione, per iniziativa di singoli condòmini, di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni dell'edificio può essere autorizzata dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio.



L'AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO


Il rapporto di mandato

Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il condominio è un ente di gestione, privo della personalità giuridica, ma pur sempre titolare di diritti e doveri. Il condominio viene considerato come una forma di comunione forzosa, che agisce per il tramite del suo legale rappresentante per ciò che riguarda le parti e gli impianti comuni. La legge affida l'esercizio dinamico dei rapporti condominiali e la loro organizzazione ad un amministratore: egli si configura come un ufficio di diritto privato, assimilabile al mandato con rappresentanza avente ad oggetto l'amministrazione dei beni di proprietà comune dei condòmini.
Fin dalla sentenza della Cassazione 1720/1981, si afferma che l'amministratore di condominio configura un ufficio di diritto privato oggettivamente orientato alla tutela del complesso di interessi e realizzante una cooperazione, che è assimilabile, al mandato con rappresentanza, con la conseguente applicabilità nei rapporti tra amministratori ed ognuno dei condòmini.
Tale mandato si configura, come un contratto a prestazioni corrispettive, da cui derivano diritti ed obblighi reciproci a carico di ciascuna delle parti.
Caratteristica del mandato è la sussistenza di un rapporto fiduciario tra mandante (il condominio) ed il mandatario (l'amministratore): da ciò deriva la possibilità di revocare l'amministratore in ogni tempo.
Prima della riforma del condominio, del compenso dell'amministratore parlava indirettamente l'art.1135, co. 1, c.c. , nella parte in cui indica, tra le attribuzioni dell'assemblea, “la conferma dell'amministratore e l'eventuale sua retribuzione”.
La giurisprudenza ha precisato che il compenso stabilito per l'amministratore include anche la partecipazione dello stesso all'assemblea straordinaria, connessa ed indispensabile allo svolgimento dei suoi compiti istituzionali.
La recente riforma approvata il 20 novembre 2012 ha introdotto un'esplicita previsione in materia di compenso dell'amministratore.
Il nuovo art.1129, co. 12, c.c. prevede, che l'amministratore, all'atto dell'accettazione della nomina e del suo rinnovo, debba specificare analiticamente a pena di nullità della nomina stessa, l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta.
In questo modo, i condòmini hanno la possibilità di conoscere, quali saranno i compensi dell'amministratore, mentre l'amministratore, da parte sua, una volta ricevuto l'incarico, avrà la certezza che i condòmini non potranno contestare in un momento successivo, la misura e la congruità dei compensi richiesti per lo svolgimento del proprio incarico.

I requisiti di formazione ed onorabilità dell'amministratore

L'amministratore di condominio può essere definito come un prestatore d'opera professionale.
L'attività in questione ha assunto contenuti di natura tecnica, che richiedono la sussistenza della dovuta professionalità.
La legge di riforma del condominio ha recepito dalle istanze, condizionando la possibilità di svolgere professionalmente l'attività di amministratore alla sussistenza di precisi requisiti di formazione e di onorabilità.
Ed infatti possono svolgere l'incarico di amministratore di condominio coloro:
che hanno il godimento di diritti civili;
che non sono stati condannati per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, e la fede pubblica;
che non cono stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive;
che non sono interdetti o inabilitati;
il cui nome non risulta annotato nell'elenco dei protesti cambiari;
che hanno conseguito il diploma di scuola secondaria;
che hanno frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale.
La riforma distingue tra amministratori professionisti ed amministratori nominati tra i condòmini dello stabile, fermi i requisiti di onorabilità di cui la legge non richiede alcun titolo di studio, né la partecipazione ad alcun corso.
Viceversa, chi svolge professionalmente l'attività di amministratore dovrà aver conseguito un diploma di scuola secondaria ed aver frequentato un corso di formazione iniziale. Il professionista dovrà aggiornarsi periodicamente.
In relazione a quest'ultima disposizione, l'art. 71Bis, co. 5, disp.att. c.c. prevede una disciplina transitoria: chi ha già svolto l'attività di amministratore per almeno un anno, nell'arco dei tre anni precedenti all'entrata in vigore della riforma, non dovrà seguire alcun corso iniziale, fermo restando l'obbligo della formazione continua.
Un'ulteriore novità della riforma del condominio consiste, poi, nell'esplicita previsione che anche le società di cui al titolo V del libro V del codice civile possano svolgere l'incarico di amministratore di condominio.
Coerentemente con la scelta legislativa di rafforzare la professionalità di amministratore di condominio, al momento della nomina e del rinnovo, l'amministratore è tenuto a fornire ai condomini una serie di dati e di strumenti di pubblicità per consentire loro la valutazione delle proprie qualifiche e del proprio operato.
La perdita dei requisiti comporta la cessazione dall'incarico.
Anche a seguito della recente riforma, l'appartenenza ad un Ordine professionale non costituisce una causa di incompatibilità con lo svolgimento dell'attività di amministratore di condominio. Anche un altro provvedimento, approvato dal senato, introduce una disciplina legislativa dei cd. “senz'albo”.

COSA CAMBIA

La riforma del condominio condiziona la possibilità di svolgere professionalmente l'attività di amministratore di condominio alla sussistenza di precisi requisiti di formazione e di onorabilità, la cui perdita comporta la cessazione dell'incarico.


L'amministratore di condominio quale persona giuridica

In passato, l'opinione dominante, era che l'incarico di amministratore di condominio non potesse essere assunto da una società di capitali.
Col passare del tempo si è affermata gradualmente la tesi opposta, sostenendosi che, “ atteso che i compiti dell'amministratore sono circoscritti alla cura ed alla gestione delle parti comuni dell'edificio, è ammissibile il conferimento del relativo incarico ad una società commerciale”.
La Corte di Cassazione ha ritenuto ben possibile che una società di persone potesse assumere l'incarico di amministratore, mentre tale possibilità doveva escludersi per le società di capitali.
Negli ultimi anni si è assistito alla crescente necessità di amministrare strutture condominiali sempre più complesse. Conseguentemente, si è verificata un'evoluzione dell'offerta dei servizi condominiali, che ha conosciuto, tra l'altro, la nascita d strutture professionali associative e società di capitali specializzati nella gestione dei condominii.
In corrispondenza a questa evoluzione, la giurisprudenza ha ammesso che lo svolgimento dell'incarico di amministratore potesse essere assunto anche dalle società di capitali.
In particolare, la Cassazione ha affermato che “ anche una persona giuridica può essere nominata amministratore del condominio negli edifici, posto che il rapporto di mandato istituito nei confronti delle persone suddette, quanto all'adempimento delle obbligazioni ed alla relativa imputazione della responsabilità, può essere caratterizzato dagli stessi indici di affidabilità che contrassegnano il mandato conferito ad una persona fisica”. Pertanto, avuto riguardo al continuo incremento dei compiti dell'amministratore, “è ragionevole pensare... che questi possano essere assolti in modo migliore dalle società che nel loro ambito annoverano specialisti nei diversi rami”.
Questo recente orientamento giurisprudenziale, sembra configurare una nuova tipologia contrattuale, denominata da alcuni “contratto di amministrazione”.
La questione è stata definitivamente risolta dalla legge di riforma del condominio,che prevede espressamente che anche le società, sia di persone, sia di capitale, possano svolgere l'incarico di amministratore di condominio.

COSA CAMBIA

La riforma del condominio riconosce espressamente la possibilità che l'incarico di amministratore di condominio sia svolto anche da società di capitali.



La nomina dell'amministratore

Prima delle modifiche introdotte dalla legge di riforma del condominio, l'assemblea era tenuta a nominare l'amministratore di condominio quando i condòmini fossero stati più di quattro.
Il nuovo art. 1129, co. 1, c.c. , invece, ha innalzato la soglia al di sotto della quale la nomina dell'amministratore è facoltativa , portandola da quattro, ad otto condòmini: se i condòmini sono almeno nove, sorge l'obbligo di nominare l'amministratore.
Tale norma continua a non essere derogabile dal regolamento condominiale: ne consegue che devono ritenersi inefficaci le clausole che escludono la nomina dell'amministratore o che comunque vi pongono limiti.
La disciplina sulla nomina dell'amministratore è ora espressamnte estesa anche agli edifici di edilizia popolare ed economica.
Nel caso in cui l'assemblea non provveda alla nomina dell'amministratore, il presidente del tribunale competente per territorio, su richiesta anche di un solo condòmino, può sostituirsi all'assemblea condominiale e nominare l'amministratore.
L'amministratore nominato dal Presidente del tribunale ha le stesse attribuzioni dell'amministratore nominato dall'assemblea. L'assemblea può subordinare la nomina dell'amministratore alla presentazione di una polizza individuale di assicurazione per la responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato.
Il quorum richiesto per la nomina dell'amministratore è costituito da un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio. Trattandosi di un rapporto di mandato, è necessaria l'accettazione del soggetto designato. L'amministratore deve specificare analiticamente l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta.
Contestualmente all'accettazione della nomina e ad ogni rinnovo dell'incarico, l'amministratore comunica i propri dati anagrafici e professionali.
Ai sensi del nuovo art. 1129, co. 5 e 6, c.c. , sul luogo di accesso al condominio, è affissa l'indicazione delle generalità, del domicilio e dei recapiti dell'amministratore (targa obbligatoria). Da tale previsione può desumersi un obbligo di reperibilità a carico dell'amministratore, il quale dovrà essere raggiungibile in qualsiasi orario della giornata, così da far fronte a situazioni di emergenza.
Il nuovo art.1129, co.10, c.c. dispone che l'incarico di amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata. Quanto al rinnovo dell'incarico, le norme codicistiche prendono in considerazione tale ipotesi solo per estendervi l'obbligo di specificare l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta.
COSA CAMBIA

Se i condòmini sono più di otto, la nomina dell'amministratore è obbligatoria.
Se l'assemblea non provvede alla nomina dell'amministratore, può rivolgersi all'autorità giudiziaria anche l'amministratore dimissionario.
L'assemblea può subordinare la nomina dell'amministratore alla presentazione di una polizza individuale di assicurazioni per la responsabilità civile per gli atti compiuti nell'esercizio del mandato.
All'atto dell'accettazione della nomina e del suo rinnovo l'amministratore deve specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'importo dovuto a titolo di compenso. Contestualmente all'accettazione della nomina e ad ogni rinnovo dell'incarico, l'amministratore deve comunicare una serie di dati, tra cui quelli anagrafici e professionali, e deve indicare il locale ove si trovano i registri condominiali obbligatori e le relative modalità di consultazione.
Diventa obbligatoria l'apposizione di una targa con l'indicazione delle generalità, del domicilio e dei recapiti, anche telefonici, dell'amministratore.
L'incarico di amministratore ha durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata.



La revoca dell'incarico

Nella disciplina originaria, per quanto riguarda la revoca senza giusta causa, l'assemblea può revocare l'amministratore in qualsiasi momento. In questa ipotesi, i condòmini dovranno corrispondere all'amministratore il compenso pattuito fino alla scadenza del mandato.
Accanto a questa ipotesi di revoca “senza giusta causa”, il codice civile prevede alcune ipotesi di revoca “per giusta causa” nel quale l'autorità giudiziaria su ricorso di ciascun condòmino può revocare l'amministratore:
se non ha dato tempestiva notizia all'assemblea della notifica di una citazione in giudizio o di un provvedimento, avente un contenuto che esorbitasse dalle attribuzioni dell'amministratore;
se per due anni non ha reso il conto della sua gestione;
se vi sono fondati sospetti di gravi irregolarità.

COSA CAMBIA

La riforma ha introdotto due ipotesi in cui sia l'assemblea, sia l'autorità giudiziaria, possono revocare l'amministratore: ciò avviene in caso di gravi irregolarità fiscali o di mancata ottemperanza all'apertura ed utilizzazione del conto corrente condominiale.
L'amministratore è revocato dall'autorità giudiziaria, su ricorso di ciascun condòmino, se non presenta il conto della propria gestione: non è più necessario che l'inadempimento si sia prolungato per due esercizi consecutivi.
Vengono specificate in maniera non tassativa, le ipotesi di “gravi irregolarità”.


La cd. Prorogatio Imperii

All'amministratore cessato rimane l'obbligo di continuare ad esercitare le sue funzioni finché è sostituito: cd. Prorogatio.
Oltre all'obbligo di consegnare al nuovo amministratore tutta la documentazione relativa alla propria gestione, così da assicurare la continuità amministrativa, gestionale e contabile, l'amministratore cessato dall'incarico è tenuto ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni, senza diritto ad ulteriori compensi.

COSA CAMBIA

La riforma introduce espressamente l'obbligo per l'amministratore cessato dall'incarico di eseguire le attività urgenti, in modo da evitare che il condominio possa subire pregiudizi.


Obblighi ed attribuzioni dell'amministratore

L'art. 1130 c.c. disciplina le attribuzioni dell'amministratore, che comprendono una serie di doveri e una serie di poteri e facoltà. Si tratta di mansioni esecutive, amministrative, di gestione e di tutela dei beni e servizi comuni, che l'amministratore deve svolgere nell'interesse dei condòmini, ai quali egli si sostituisce.
Quelle previste dall'art. 1130 c.c. costituiscono le attività di ordinaria amministrazione, per lo svolgimento delle quali l'amministratore non ha bisogno di alcuna autorizzazione, essendo ricomprese nel mandato conferitogli.
Per gli atti di straordinaria amministrazione è invece necessaria un'espressa delega da parte dell'assemblea dei condòmini. Questa regola può essere derogata laddove sussistano i presupposti della necessità e dell'urgenza. In questi casi, l'amministratore può agire anche senza la previa autorizzazione assembleare ma con l'obbligo di riferirne alla prima assemblea onde riceverne la ratifica.





COSA CAMBIA

La legge di riforma del condominio ha ampliato gli obblighi dell'amministratore, introducendone di nuovi con finalità di controllo dell'operato dello stesso.



Esecuzione delle delibere assembleari

Ai sensi dell'art 1130, co. 1, c.c. , l'amministratore deve eseguire le deliberazioni dell'assemblea, convocarla annualmente per l'approvazione del rendiconto condominiale e curere l'osservanza del regolamento di condominio.
Per quanto riguarda l'esecuzione delle delibere assembleari, l'amministratore non è obbligato ad aspettare il decorso del termine di impugnazione, ferma, comunque, l'opportunità che l'amministratore ne controlli la legittimità e l'efficacia.

Osservanza del regolamento

Sempre ai sensi dell'art. 1130, co. 1, c.c. , l'amministratore deve curare l'osservanza del regolamento di condominio: a lui potrà rivolgersi ogni condòmino affinché provveda a farlo rispettare.
L'osservanza del regolamento di condominio sarebbe limitata alle clausole aventi ad oggetto uso, disciplina e tutela delle parti comuni. Talora, invece, si ritiene che l'amministratore debba curare indistintamente l'osservanza di tutte le clausole del regolamento, senza distinzioni. L'amministratore del condominio non può essere ritenuto responsabile dei danni cagionati dall'abuso dei condòmini nell'uso della cosa comune, non essendo dotato di potere coercitivi nei confronti dei singoli condòmini.
L'art. 70 disp. att. c.c. , prevede la possibilità di applicazione di sanzioni nei confronti dei condomini che violano le norme da esso stabilite sull'uso delle cose comuni. Ai sensi del nuovo testo dell'art.70 disp. Att. , c.c. , per le infrazioni al regolamento di condominio, può essere stabilito il pagamento di una somma fino ad euro 200 e, in caso di recidiva, fino ad euro 800.

COSA CAMBIA

La riforma eleva l'importo massimo delle sanzioni che l'amministratore può comminare in caso di violazione del regolamento condominiale, portandolo a 200 euro; in caso di recidiva può arrivare ad 800 euro.



Disciplina dell'uso di cose e servizi comuni

Spetta all'amministratore disciplinare l'uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi comuni. Egli, pertanto, ha l'obbligo di vigilare sulla regolarità dei servizi comuni, di eseguire le opportune verifiche e di impartire le necessarie prescrizioni per mantenere integra la parità di godimento dei beni da parte di tutti condòmini.
All'amministratore spetta il compito di stipulare, con la ditta erogatrice, il contratto di somministrazione del riscaldamento, l'assunzione, la sorveglianza ed il licenziamento del portiere, la tutela contro le immissioni e le opere abusive.

Riscossione dei contributi

L'amministratore deve provvedere alla riscossione dei contributi ed all'erogazione delle spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio.
La riforma del condominio ha innovato la previgente disciplina ed infatti l'amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio.
A tale riguardo, costituiscono gravi irregolarità:
l'aver acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla cancellazione delle formalità eseguite nei registri immobiliari;
la mancata diligenza nelle azioni giudiziarie per la riscossione delle somme dovuta al condominio.

COSA CAMBIA

l'Amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio.
Costituiscono gravi irregolarità della sua gestione gli atti che hanno l'effetto di ridurre le garanzie dei crediti condominiali.


Atti conservativi

Nello svolgimento delle attività di gestione dei beni e dei servizi comuni rientra anche il potere di compiere atti conservativi dei diritti inerenti le parti comuni dell'edificio. Tali atti consistono, non solo nella richiesta all'autorità giudiziaria di misure cautelari, ma anche nell'esercizio di azioni petitorie nei confronti delle turbative e delle molestie prodotte da terzi o dagli stessi condòmini sulle cose comuni.Nell'esercizio di tale attribuzione, trattandosi di ordinaria amministrazione, non è necessaria alcuna autorizzazione da parte dell'assemblea.
La giurisprudenza ritiene che l'amministratore, non solo sia legittimato a compiere gli atti conservativi ma possa anche compiere atti diretti alla salvaguardia dei diritti concernenti le stesse parti comuni.

Obbligo di eseguire gli adempimenti fiscali

Ai sensi dell'art. 1130, n. 5 c.c. l'amministratore ha l'obbligo di eseguire gli adempimenti fiscali. Il condominio viene configurato come sostituto di imposta: pur non essendo il condominio un soggetto di diritto, ma un mero ente di fatto, la norma in oggetto riconosce al condominio la soggettività giuridica nei rapporti con il fisco. Il condominio è pertanto tenuto ad importanti adempimenti fiscali: effettuare e versare le ritenute di acconto, nonché presentare la dichiarazione dei sostituti d'imposta (modello 770).
L'amministratore è tenuto a richiedere il codice fiscale per il condominio, mentre il condominio non è titolare di partita IVA.
L'amministratore è tenuto ad operare, la ritenuta alla fonte a titolo di acconto su:
redditi da lavoro dipendente;
redditi di lavoro autonomo;
provvigioni; redditi di capitale;
corrispettivi dovuti per contratti di appalto di opere o servizi.

Ai sensi dell'art.4 del d.P.R. 322/1998, l'amministratore ha l'obbligo di comunicare annualmente all'anagrafe tributaria l'ammontare di beni e servizi acquistati dal condominio, indicando, i dati identificativi dei fornitori. L'amministratore è tenuto ad eseguire gli adempimenti previsti in materia contributiva nei confronti dei competenti istituti previdenziali.



COSA CAMBIA

La riforma prevede espressamente l'obbligo per l'amministratore di provvedere per conto del condominio, ai relativi adempimenti fiscali.





Obbligo di tenere i registri e la contabilità

E' sempre particolarmente sentita l'esigenza di documentare, ai fini della gestione amministrativa, i rapporti interni tra i condòmini ed i rapporti esterni tra il condominio ed i terzi. Prima della recente riforma, la disciplina della materia era integralmente affidata al regolamento condominiale. L'esigenza di conoscere con esattezza e documentare l'ammontare dei contributi condominiali riscossi e delle spese affrontate per i servizi comuni e la manutenzione dell'edificio, ha reso opportuna la tenuta di un libro giornale, dove registrare in ordine cronologico tutte le uscite e le entrate. Accanto al libro giornale è stata la tenuta di uno schedario, nel quale indicare i debiti ed i crediti di ciascun condòmino.
La giurisprudenza ha chiarito che detta documentazione doveva essere messa a disposizione di tutti i proprietari in sede di rendiconto annuale.
La riforma del condominio ha dettato una disciplina molto più specifica e puntuale, prevedendo la tenuta obbligatoria di quattro registri:

1. il registro di anagrafe condominiale;
2. il registro dei verbali delle assemblee;
3. il registro di nomina e revoca dell'amministratore;
4. il registro di contabilità.

Il registro dell'anagrafe condominiale contiene le generalità di singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento.
Nel registro dei verbali delle assemblee sono altresì annotate le eventuali mancate costituzioni dell'assemblea, le deliberazioni e brevi dichiarazioni rese dai condòmini che hanno fatto richiesta. Allo stesso registro è allegato il regolamento di condominio.
Nel registro di nomina e revoca dell'amministratore sono annotate in ordine cronologico, le date della nomina e della revoca di ciascun amministratore del condominio, nonché gli estremi del decreto in caso di provvedimento giudiziario.
Nel registro di contabilità sono annotati in ordine cronologico i singoli movimenti in entrata ed in uscita.
La disciplina introdotta dalla riforma ha inteso imporre all'amministratore una regolare e corretta attività di gestione e di documentazione della sua attività, al fine di evitare situazioni di incertezze.

COSA CAMBIA

La riforma prevede la tenuta obbligatoria di quattro registri: il registro di anagrafe condominiale; il registro dei verbali delle assemblee; il registro di nomina e revoca dell'amministratore, il registro di contabilità.




Obbligo di presentare i documenti giustificativi delle spese

L'amministratore non può esentarsi dal documentare le spese affrontate per il condominio.
In assenza di specifiche previsioni normative, anche in passato si è sottolineata l'opportunità che l'amministratore si facesse rilasciare e conservasse le fatture e le ricevute fiscali relative alle prestazioni ricevute dal condominio: ciò è passibile di sanzione pecuniaria nel caso in cui non sia in grado di esibire idoneo documento fiscale nel luogo della prestazione, ma principalmente per poter dimostrare ai condòmini la spesa sostenuta e l'avvenuto pagamento, così da evitare contestazioni da parte dei condòmini.
Si è ritenuto che l'amministratore avesse l'onere di procedere all'elencazione dei beni comuni, così da poter meglio provvedere alla manutenzione degli stessi.
La riforma del condominio prevede, ora, l'obbligo di conservare tutta la documentazione inerente alla propria gestione. L'amministratore è obbligato a conservare le scritture ed i documenti giustificativi per dieci anni dalla data della relativa registrazione, e che i condòmini hanno diritto di prendere visione dei documenti giustificativi di spesa in ogni tempo.
L'amministratore, inoltre, è tenuto a fornire al condominio che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali.
Va ricordato che, alla cessazione dell'incarico, l'amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso, relativa al condominio.
Sono risultate particolarmente frequenti le ipotesi di mancata consegna al condominio della documentazione relativa alla gestione amministrativa. In particolare, la giurisprudenza ha ritenuto che l'amministratore è tenuto a restituire ciò che ha ricevuto nell'esercizio del mandato, vale a dire tutto ciò che ha in cassa.
In fine l'amministratore è tenuto ad attivare un sito internet del condominio che consenta agli aventi diritto di consultare ed estrarre copia in formato digitale dei documenti previsti dalla delibera assembleare.

COSA CAMBIA

La riforma prevede l'obbligo di conservare tutta la documentazione relativa alla propria gestione.
Su richiesta dell'assemblea, l'amministratore è tenuto ada attivare un sito internet del condominio.


Obbligo del rendiconto della gestione

L'art. 1130 , co.1, n. 10, c.c. prevede l'obbligo per l'amministratore di redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e di convocare l'assemblea per la relativa approvazione entro 180 giorni.
La riforma ha introdotto un termine per l'approvazione del rendiconto (180 giorni). L'obbligo del rendiconto sussiste nei confronti dell'assemblea e non del singolo condòmino.
La giurisprudenza ha precisato che il rendiconto deve essere compilato in modo intellegibile, per dare la possibilità all'assemblea di controllare le modalità di impiego delle risorse condominiali. Il rendiconto deve contenere le voci d'entrata e di uscita e deve indicare ogni altro dato relativo alla situazione patrimoniale del condominio.
La disposizione in commento detta specifiche prescrizioni sulla struttura del rendiconto, il quale dovrà comporsi di:
1. un registro di contabilità;
2. un riepilogo finanziario;
3. una nota sintetica esplicativa della gestione.
L'assemblea condominiale può nominare un revisore che verifichi la contabilità del condominio.

COSA CAMBIA

La riforma prevede l'obbligo per l'amministratore di redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e di convocare l'assemblea per la relativa approvazione entro centottanta giorni.
Nel redigere il rendiconto, l'amministratore è tenuto a rispettare specifiche prescrizioni in ordine al suo contenuto necessario, alla struttura ed ai criteri di compilazione.
L'assemblea può verificare la contabilità, nominando un revisore.


Obblighi di aprire il conto corrente condominiale

Un'altra importante novità della riforma è la previsione dell'obbligo, a carico dell'amministratore, di far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condòmini o da terzi, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio.
La mancata apertura ed utilizzazione del conto corrente condominiale è considerato un inadempimento particolarmente grave.
In questo caso, si tratta di una previsione che il legislatore ha opportunamente introdotto per evitare ogni possibile confusione tra il patrimonio personale ed il patrimonio condominiale.
Anche prima delle recente riforma, l'apertura di un conto corrente intestato al condominio, era considerata un adempimento essenziale ai fini di una corretta gestione.
L'omissione dell'apertura di un conto corrente condominiale è stata individuata come una giusta causa di revoca dell'amministratore.
In passato, la Cassazione ha ritenuto lecita l'apertura di un conto corrente intestato all'amministratore per gestire un fondo cassa attivo.
Tale apertura di un conto corrente intestato all'amministratore per la gestione di un fondo cassa del condominio deve oggi ritenersi non più ammissibile.

COSA CAMBIA

La riforma prevede espressamente l'obbligo per l'amministratore di aprire ed utilizzare un conto corrente condominiale:il relativo inadempimento può determinare la revoca dell'amministratore da parte dell'assemblea o dell'autorità giudiziaria.



Obbligo di agire e resistere in giudizio per la tutela degli interessi comuni: la rappresentanza legale

L'amministratore ha la rappresentanza legale e processuale del condominio e può agire a tutela di un interesse comune sia contro i condòmini sia contro i terzi.
Con particolare riferimento alla legittimazione attiva, si ritiene che l'amministratore possa agire in giudizio nei confronti dei singoli condòmini al fine di:
eseguire deliberazioni dell'assemblea e curare l'osservanza del regolamento di condominio;
disciplinare l'uso delle cose e dei servizi comuni;
riscuotere il pagamento dei contributi determinati in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea;
compiere gli atti conservativi inerenti alle parti comuni dell'edificio.
La nuova formulazione dell'art. 69 disp. att. c.c. specifica l'obbligo per l'amministratore di dare immediata notizia all'assemblea della convocazione in giudizio del condominio per la revisione delle tabelle millesimali: l'amministratore che non adempie a questo obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento degli eventuali danni.

COSA CAMBIA

La riforma specifica l'obbligo per l'amministratore di dare immediata notizia all'assemblea della convocazione in giudizio del condominio per la revisione delle tabelle millesimali: in caso di inadempimento l'amministratore può essere revocato ed è tenuto al risarcimento degli eventuali danni.



La media-conciliazione in materia condominiale

La legge di riforma del condominio introducendo ex novo l'art.71quater disp. Att. c.c. , ha disciplinato alcuni aspetti relativi alla procedura di conciliazione per controversie rientranti in materia condominiale. Il decreto legislativo 4 marzo 2010, n.28, art.5, co. 1, prevedeva, a far data, dal 20 marzo 2012, il preventivo esperimento del tentativo di conciliazione innanzi ad appositi organismi, iscritti in un apposito elenco istituito con decreto ministeriale, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
L'art.71quater disp. Att. c.c. chiarisce che per “controversie in materia di condominio”, ai sensi del citato decreto legislativo, si devono intendere quelle derivanti dalla violazione o dall'errata applicazione delle disposizioni del codice civile dedicate al condominio, e degli articoli da 61 a 72 delle disposizioni per l'attuazione del codice.
La domanda di mediazione deve essere presentata presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato.
Al procedimento è legittimato a partecipare l'amministratore, previa delibera assembleare da assumere con un numero di voti che rappresenti la maggior degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio.
Il legislatore ha quindi previsto la necessità per l'amministratore di munirsi di apposita autorizzazione assembleare.
L'approvazione dell'assemblea è necessaria anche per l'accettazione della proposta di mediazione.
Il 24 ottobre 2012, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del decreto legislativo 4 marzo 2010, n.28, nella parte in cui ha previsto il carattere obbligatorio della mediazione nelle controversie civili e commerciali.
Pertanto, a seguito dell'intervento della Consulta, il preventivo esperimento delle tentativo di conciliazione in materia condominiale non è più obbligatorio, rimanendo pur sempre facoltativo: chi intende far valere in giudizio un diritto fondato sulle norme del codice civile in tema di condominio non è più tenuto ad aderire in via preventiva, un organismo di conciliazione, ma può farvi comunque ricorso se lo ritiene opportuno.

COSA CAMBIA

La riforma introduce una disciplina dedicata alla conciliazione in materia condominiale: per potervi partecipare, l'amministratore deve essere previamente autorizzato da apposita delibera assembleare.


La responsabilità dell'amministratore

L'amministratore può incorrere in responsabilità di tipo civile, penale o fiscale. La riforma del condominio avrà senza dubbio l'effetto di aumentare le ipotesi di responsabilità dell'amministratore.
L'amministratore risponde del suo operato in relazione all'obbligo di diligenza: l'incarico va quindi assolto con la diligenza posseduta dall'uomo medio.
La responsabilità dell'amministratore sussiste sia quando egli eserciti i propri poteri in materia negligente sia quando non li eserciti affatto.
Con riguardo all'elemento soggettivo è quindi sufficiente il configurarsi di colpa nell'esecuzione degli obblighi posti a suo carico.
L'amministratore non incorre in responsabilità quando il danno sia stato cagionato da caso fortuito o forza maggiore. Ove incorra in questo tipo di responsabilità - che ha natura contrattuale – l'amministratore è tenuto al risarcimento dei danni nell'eventualità che i condomini abbiano subito un pregiudizio derivante da un suo comportamento negligente.
Tale responsabilità sarà valutata con minor rigore nel caso egli presti la propria opera gratuitamente.
Sussiste una responsabilità di tipo extracontrattuale laddove l'amministratore non si sia attivato per impedire il verificarsi di un danno.
Ogni condominio è titolare del diritto di agire nei confronti dell'amministratore per i danni arrecati al condominio. L'amministratore è responsabile nei confronti di terzi estranei al condominio.

COSA CAMBIA

La legge di riforma del condominio ha ampliato e meglio specificato gli obblighi dell'amministratore e le sue responsabilità .



L'ASSEMBLEA

L'assemblea condominiale è l'organo di autogoverno dei condòmini, i quali, partecipandovi trasformano le singole volontà in volontà collegiale, prendendo le decisioni necessarie all'amministrazione della cosa comune. La stessa assemblea può dotarsi di regole per il proprio funzionamento, mediante l'adozione del regolamento di condominio.
La riforma varata il 20 novembre 2012 ha apportato significative modifiche alle norme codicistiche che regolano le attribuzioni dell'assemblea.

Attribuzioni dell'assemblea

L'art. 1135 c.c. individua una serie di competenze riservate all'assemblea condominiale. Compito centrale ed istituzionale dell'assemblea è quello di gestire il condominio e di disciplinare il godimento delle cose comuni. Esso incontra un primo limite nell'uso della proprietà esclusiva, nel senso che l'organo assembleare non può disporre alcunché in ordine all'uso ed al godimento delle cose di proprietà esclusiva.
Un secondo limite è rappresentato dalla cosa comune, nel senso che è precluso all'assemblea adottare provvedimenti che determinano una limitazione dell'uso delle parti comuni. L'assemblea di condominio non può ledere i diritti dei singoli condòmini in ordine all'uso delle cose comuni.

Conferma dell'amministratore

Esaminando nel dettaglio le attribuzioni riconosciute all'assemblea, l'art. 1135 c.c. apre la sua elencazione menzionando la conferma dell'amministratore e la determinazione della sua retribuzione.

Approvazione del bilancio preventivo e del rendiconto annuale

L'assemblea provvede all'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno ed alla relativa ripartizione tra i condòmini.

1. IL BILANCIO PREVENTIVO

Il preventivo presentato dall'amministratore, riporta il presumibile ammontare delle spese condominiali, ordinarie e straordinarie, relativo all'esercizio medesimo. In attesa dell'approvazione del preventivo, è riconosciuta all'assemblea la facoltà di autorizzare l'amministratore a richiedere ai condòmini pagamenti provvisori.

2. IL RENDICONTO ANNUALE

L'asse approva il rendiconto annuale dell'amministratore e decide in ordine all'impiego del residuo attivo della gestione: l'assemblea esercita il suo controllo sull'operato dell'amministratore.
In sede di ripartizione delle spese, la delibera che approva il consuntivo non può modificare i criteri di riparto stabiliti dalla legge.
Dal rendiconto si evince se la gestione condominiale si è chiusa con disavanzo o con avanzo: in quest'ultimo caso, il residuo attivo appartiene alla collettività condominiale.
La delibera assembleare vincola anche gli assenti ed i dissenzienti. Pertanto, i saldi passivi costituiscono un'effettiva posta di debito nei confronti dei singoli condòmini. In caso di inadempimento, l'amministratore potrà ottenere, nei confronti dei condòmini morosi, lo speciale decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo: al verbale della riunione condominiale con cui si approva il consuntivo si riconosce il valore di prova scritta idonea ad ottenere l'emissione di decreto ingiuntivo per il pagamento delle spese condominiali.
La giurisprudenza ha chiarito che la delibera con cui il condominio approva il preventivo o il rendiconto per le spese ordinarie e straordinarie deve distinguere analiticamente quelle occorrenti per l'uso da quelle correnti per la conservazione delle parti comuni.
La legge di riforma del condominio è intervenuta in materia dettando una disciplina puntuale e dettagliata del rendiconto condominiale ai sensi dell'art.1130bis c.c. .
Il rendiconto si compone di:
1. un registro di contabilità;
2. un riepilogo finanziario;
3. una nota sintetica esplicativa della gestione, con l'indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni precedenti.

L'assemblea condominiale può nominare un revisore che verifichi la contabilità del condominio.
L'art.1130bis c.c. inoltre riconosce ai condòmini ed ai titolari di diritti reali o di godimento sulle unità immobiliari il diritto di prendere visione in ogni momento, dei documenti giustificativi di spesa e di estrarne copia a proprie spese.
L'assemblea dei condòmini può procedere alla ratifica di un impegno particolare di spesa assunto dall'amministratore.

Manutenzione straordinaria ed innovazione

Per manutenzione del condominio si intendono quell'insieme di interventi finalizzati a mantenere in uno stato di ordinaria funzionalità le parti comuni dell'edificio.
L'assemblea dei condòmini provvedere alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni, sostituendo obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori.
L'amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che rivestano carattere urgente, ma in questo caso deve riferirne nella prima assemblea.
Sono considerati interventi straordinari quelli caratterizzati dall'imprevedibilità o dall'eccezionalità, dalla loro infrequenza nel tempo e dal loro ingente costo; sono invece da intendersi come ordinari quegli interventi programmabili con cadenza periodica, senza rivestire carattere di urgenza.
Una volta deliberata l'esecuzione di uno degli interventi sopra menzionati, l'assemblea può eventualmente affidare ad una commissione di condòmini l'incarico di verificarne gli aspetti esecutivi.
L'ultimo comma dell'art. 1135 c.c. aggiunto ex novo dalla recente riforma prevede che l'assemblea possa autorizzare l'amministratore a partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da soggetti privati qualificati.

COSA CAMBIA

Quando l'assemblea delibera la realizzazione di interventi di straordinaria amministrazione o di innovazioni, è obbligata a costituire un fondo speciale.


Soggetti legittimati a partecipare all'assemblea

L'assemblea non può deliberare se non sono stati invitati alla riunione tutti i condòmini.
Ai sensi dell'art. 67,co. 2, disp. att. c.c. , come modificato dalla legge di riforma del 20 novembre 2012, se l'unità immobiliare è oggetto di comproprietà, i comproprietari hanno diritto di esprimere un solo voto, tramite un rappresentatnte comune in assemblea.
In caso di vendita dell'appartamento, l'acquirente ha diritto di partecipare all'assemblea. In ogni caso è onere delle parti comunicare all'amministratore l'avvenuto trasferimento dell'unità immobiliare.
In caso di morte del condòmino è onere dell'erede comunicare all'amministratore il subentro nella posizione giuridica del de cuius.
Un particolare regime è previsto dall'art. 67, co. 6, disp. Att. c.c. , per l'ipotesi in cui un unità immobiliare sia gravata da usufrutto: l'usufruttuario ha diritto di essere invitato all'assemblea quando, all'ordine del giorno, vi sono questioni attinenti all'ordinaria amministrazione o al godimento delle cose e dei servizi comuni.
Il diritto di voto spetta al nudo proprietario, salvi i casi in cui l'usufruttuario intende eseguire le riparazioni omesse dal proprietario, ovvero si tratti di lavori che costituiscono miglioramenti o addizioni: in tutti questi casi, l'avviso di convocazione deve essere comunicato sia all'usufruttuario sia al proprietario.
Il conduttore di un unità immobiliare ha diritto di intervenire in assemblea e di votare in relazione alle delibere aventi ad oggetto le spese e le modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento.

COSA CAMBIA

In caso di dissenso tra i proprietari di un unità immobiliare circa la nomina di un rappresentante comune in assemblea non provvede più il presidente dell'assemblea condominiale ma l'autorità giudiziaria.
Inoltre, vengono ampliate le ipotesi in cui l'usufruttuario di un unità immobiliare ha diritto di partecipare all'assemblea.


Avviso di convocazione

L'assemblea viene convocata annualmente, in via ordinaria, per l'approvazione del bilancio preventivo e del rendiconto consuntivo: l'omessa convocazione dell'assemblea per l'approvazione del rendiconto condominiale costituisce una grave irregolarità da parte dell'amministratore e un motivo di revoca per giusta causa.
L'amministratore può procedere alla convocazione dell'assemblea, in via straordinaria, quando lo ritenga necessario o quando ne è fatta richiesta da almeno due condòmini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio. Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, i detti condòmini possono provvedere direttamente alla convocazione.
Se manca l'amministratore l'assemblea può essere convocata ad iniziativa di ciascun condòmino.
L'assemblea può essere convocata da un curatore speciale, la cui nomina può essere richiesta da chi intende iniziare o proseguire una lite contro i partecipanti al condominio.
L'assemblea in seconda convocazione non può tenersi nel medesimo giorno della prima. Inoltre, l'amministratore ha facoltà di fissare più riunioni consecutive in modo da assicurare lo svolgimento dell'assemblea in termini brevi, convocando gli aventi diritto con un unico avviso nel quale sono indicate le ulteriori date ed ore di eventuale prosecuzione dell'assemblea.
Prima della riforma del condominio, la legge nulla prevedeva in ordine al contenuto ed alla forma dell'avviso di convocazione assembleare, limitandosi a prescrivere che esso dovesse essere comunicato ai condòmini almeno cinque giorni prima della riunione.
Prima della riforma nulla era previsto in relazione alle modalità di comunicazione dell'avviso.
Ai sensi dell'art.66, co.3, disp. att. c.c. ,profondamente rivisto ed integrato dal provvedimento di riforma del condominio, l'avviso di convocazione, deve essere comunicato almeno 5 giorni prima della data fissata per l'adunanza in prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, e deve contenere l'indicazione del luogo e dell'ora della riunione.
Il nuovo testo dell'art.66, co. 3, dip. att. c.c. , ha previsto che l'avviso di convocazione debba contenere gli elementi indispensabili per consentire al condòmino di essere presente alla riunione e perché lo stesso sia consapevole degli argomenti sui quali si dovrà pronunciare.
Anche prima della riforma, la giurisprudenza in relazione all'elenco delle materie all'ordine del giorno ha ritenuto che non fosse necessaria un'analitica e dettagliata specificazione dei temi da trattare, essendo sufficiente anche una sintetica e schematica indicazione delle materie.
Molto frequente nella prassi è la voce “varie ed eventuali” , inserita alla fine dell'ordine del giorno, nella quale sono ricompresi quei possibili argomenti di discussione che non è sempre facile prevedere in anticipo.
La suddetta voce non potrà quindi essere utilizzata dall'amministratore per inserire a sorpresa nella discussione argomenti di una certa rilevanza per la gestione del condominio.
La giurisprudenza ha ritenuto, in un primo tempo, che il mancato avviso di convocazione anche ad un solo condòmino determinasse la nullità della delibera assembleare. In tempi più recenti, la Cassazione ha affermato che la delibera non è nulla ma annullabile.
Questa seconda soluzione è stata recepita dalla riforma del condominio, che prevede che “ in caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione degli aventi diritto, la deliberazione assembleare è annullabile ai sensi dell'art. 1137 c.c. , su istanza dei condòmini dissenzienti o assenti perchè non ritualmente convocati”.
Al fine di garantire la regolarità dell'assemblea condominiale, la convocazione deve essere indirizzata al vero proprietario della porzione immobiliare.
La previsione secondo cui l'avviso di convocazione debba essere comunicato ai condòmini almeno 5 giorni prima della data fissata per la riunione è stata interpretata nel senso di ritenere che il termine vada computato a partire dal primo giorno immediatamente antecedente a quello fissato per l'adunanza e vada considerato di 5 giorni non liberi dall'adunanza stessa.
Poiché l'avviso di convocazione è un atto unilaterale recettizio, che pertanto produce effetto nei confronti del destinatario solo nel momento in cui viene a conoscenza di quest'ultimo, qualora l'avviso venga comunicato a mezzo raccomandata, la stessa non deve essere spedita 5 giorni prima dell'adunanza, ma deve essere ricevuta dal destinatario nei 5 giorni che precedono la riunione.






COSA CAMBIA

L'avviso di convocazione deve essere scritto e deve indicare il luogo e l'ora della riunione e contenere la specifica indicazione dell'ordine del giorno.
L'avviso deve essere comunicato almeno 5 giorni prima della data fissata per la prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano.


Il conferimento delle deleghe in condominio: forma, limiti e potere.

L'art. 67 disp. Att. c.c. prevede che il condòmino possa intervenire in assemblea anche a mezzo di un rappresentante. La giurisprudenza ha ritenuto che la delega potesse essere conferita anche in forma orale. La riforma del condominio, invece, richiede, ora, espressamente la forma scritta.
Il nuovo testo dell'art. 67 disp. Att. c.c. introduce un limite massimo di deleghe che possono essere conferite al medesimo soggetto, disponendo che, “ se i condòmini sono più di venti, il delegato non può rappresentare più di un quinto dei condòmini e del valore proporzionale”.
Anche l'amministratore può essere portatore di deleghe, salvo che ciò sia espressamente vietato dal regolamento condominiale.
Il nuovo art.67, co. 5, disp. Att. c.c. , invece, si limita a stabilire che “ all'amministratore non possono essere conferite deleghe per la partecipazione a qualunque assemblea”.
É ora espressamente prevista l'applicabilità al rappresentante dello stesso regime di responsabilità previsto dalle norme sul mandato; la legge specifica l'obbligo per il rappresentante di comunicare all'amministratore di ciascun condominio l'ordine del giorno e le decisioni assunte dall'assemblea.
Se il delegato esprime una volontà diversa da quella del delegante, il condòmino mandante potrà comunque agire nei confronti del suo rappresentante.

COSA CAMBIA

La delega deve essere scritta e non può essere conferita ad un soggetto che rappresenti già un quinto dei condòmini.
É espressamente prevista l'applicabilità delle norme sul mandato.



I rappresentanti condominiali nel supercondominio

L'art.67, co.3, disp.att. c.c. detta una speciale disciplina in relazione alle ipotesi in cui più unità immobiliari abbiano più parti comuni (supercondominio).
Si tratta di una regolamentazione volta a favorire e migliorare la gestione comune dei complessi condominiali costituiti da più edifici.
La complessità strutturale ed organizzativa di simili realtà condominiali è spesso fonte di ritardi e di difficoltà nel normale funzionamento dell'organo assembleare.
La'art.67, co.3, disp.att. c.c. , prevede che quando i partecipanti siano complessivamente più di sessanta, ciascun condòmino deve designare il proprio rappresentante all'assemblea per la gestione ordinaria delle parti comuni a più condòmini e per la nomina dell'amministratore. In mancanza, ciascun partecipante può chiedere che l'autorità giudiziaria nomini il rappresentante del proprio condominio.
La gestione ordinaria delle parti comuni a più condominii è affidata ad un organo ristretto, l'assemblea del supercondominio, al quale non partecipano più tutti i condòmini ma solo i rappresentanti dei singoli condominii: il contenimento del numero dei soggetti legittimati a partecipare a tali riunioni appare quanto mai opportuno e costituirà certamente un fattore che migliorerà il normale funzionamento e la gestione di queste complesse situazioni condominiali.

COSA CAMBIA

Quando i partecipanti sono più di sessanta, l'assemblea del supercondominio è composta da rappresentanti dei singoli condominii, anziché da tutti i proprietari delle unità immobiliari del supercondominio.


Svolgimento dell'assemblea

Una volta riunita l'assemblea, l'amministratore deve accertarsi che tutti gli aventi diritto siano stati regolarmente convocati. L'amministratore deve, poi, verificare quanti siano i soggetti intervenuti e se i presenti siano legittimati ad intervenire.
L'assemblea provvede alla nomina del presidente. Ad esso sono assegnati i compiti di verifica della costituzione dell'assemblea, di direzione e di disciplina della riunione, di dettatura e di sottoscrizione del verbale.
Il presidente chiama uno dei presenti a svolgere le funzioni di segretario: mentre il presidente è uno dei condòmini, l'incarico di segretario può essere affidato anche ad un terzo esterno al condominio. La mancata nomina del segretario non comporta alcuna invalidità della delibera assembleare in quanto non prevista da alcuna norma.
Ai sensi del nuovo art. 1136, co.7, c.c. delle riunioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascrivere nel registro tenuto dall'amministratore: si tratta del registro dei verbali delle assemblee di cui all'art. 1130, n.7), ove sono altresì annotate le eventuali mancate costituzioni dell'assemblea, le deliberazioni, nonché le brevi dichiarazioni rese dai condòmini che hanno fatto richiesta.
La giurisprudenza prevalente ritiene che la verbalizzazione sia richiesta solo ad probationem.
L'amministratore è tenuto a dar conto nel verbale della mancata costituzione dell'assemblea in prima convocazione.
Nel caso in cui il verbale contenga omissioni relative all'individuazione dei singoli condòmini assenzienti, dissenzienti od al valore delle rispettive quote, la delibera è annullabile.

COSA CAMBIA

Il verbale assembleare deve essere trascritto nel registro dei verbali delle assemblee, tenuto dall'amministratore.



Quorum costitutivi e quorum deliberativi

L'art.1136 c.c. impone un duplice quorum: un quorum costitutivo, riferito al numero di condòmini che devono partecipare alla riunione, ed un quorum deliberativo, relativo al numero minimo dei presenti che devono concorrere a formare la volontà dell'assemblea condominiale.
Con la modifica introdotta dalla legge della riforma del condominio, è previsto che l'assemblea in prima convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condòmini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio (quorum costitutivo). La nuova formulazione della norma ha abbassato invece, il secondo quorum alla maggioranza dei partecipanti al condominio.
Per l'approvazione delle delibere è necessario un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio (quorum deliberativo).
Se l'assemblea in prima convocazione non può deliberare per mancanza di numero legale, l'assemblea in seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quella della prima e non oltre i dieci giorni dalla medesima. L'assemblea in seconda convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condòmini che rappresentino almeno un terzo dei partecipanti al condominio (quorum costitutivo) e la deliberazione avviene solo se approvata dalla maggioranza degli intervenuti (quorum deliberativo).
Le delibere assembleari sono obbligatorie e vincolanti per tutti i condòmini, compresi gli assenti ed i dissenzienti.

COSA CAMBIA

Per la regolare costituzione dell'assemblea in prima convocazione non occorre più la partecipazione dei condòmini che rappresentino i 2/3 dei partecipanti al condominio ed i 2/3 del valore dell'edificio, ma basta l'intervento di tanti condòmini che rappresentino i 2/3 del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei partecipanti.
Inoltre, viene espressamente indicato il quorum costitutivo per la seconda convocazione mentre il quorum deliberativo viene rivisto; ovvero la maggioranza degli intervenuti.



In una causa recentemente decisa dalla Suprema Corte di Cassazione si litigava in merito alla proprietà - condominiale o individuale - del piano interrato di un edificio in condominio destinato ad area di parcheggio.

Secondo alcuni condomini quella parte d'edificio era condominiale in quanto i posti auto erano stati venduti assieme alle unità immobiliari, secondo chi se n'era impossessato, invece, quella parte dell'edificio non era stata inserita nelle compravendite.La questione è arrivata fino ai giudici di piazza Cavour; secondo gli ermellini in questo particolare caso i parcheggi dovevano essere considerati bene condominiale

Non solo perché la famosa legge n. 1142/39, come modificata dalla 765 del 1967 e dalla n. 246 nel 2005, non era applicabile al caso di specie, che era regolato dalla legge non ancora modificata dall'ultima citata, ma per un motivo, se si vuole, ancor più semplice (rispetto all'ingarbugliata vicenda dei parcheggi pertinenziali): il piano destinato a parcheggio non era stato escluso dal novero delle parti comuni.

Si legge in sentenza che "in assenza di volontà contraria, gli spazi destinati a parcheggio vengono a ricadere - per effetto del vincolo pertinenziale di cui si è detto - fra le parti comuni di cui all'art. 1117 c.c.

In proposito, è appena il caso di ricordare che il diritto di condominio su un bene comune presuppone la relazione di accessorietà strumentale e funzionale che collega i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva agli impianti o ai servizi di uso comune, rendendo il godimento del bene comune strumentale al godimento del bene individuale e non suscettibile di autonoma utilità, come avviene invece nella comunione.

Al fine di stabilire se siano stati o meno esclusi dal novero delle cose comuni previste dall'art. 1117 cod. civ. ovvero se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui alla norma citata, va fatto riferimento esclusivamente all'atto costitutivo del condominio, e, quindi, al primo atto di trasferimento di una unità immobiliare dell'originario unico proprietario dell'intero fabbricato - comportante il frazionamento della proprietà dell'edificio: peraltro, da tale atto devono risultare in modo chiaro ed inequivocabile elementi rivelatori della esclusione della condominialità del bene, non potendo tali beni successivamente essere sottratti alla loro destinazione comune" (Cass. 22 novembre 2013 n. 26253).

Insomma il ragionamento è questo: i parcheggi servono alle unità immobiliari in quanto ne rendono più comodo l'uso. I parcheggi non sono stati esclusi dalle parti comuni, quindi essi devono essere considerati beni condominiali.

Perché il riferimento è al primo atto di vendita? Semplice: per unanime convincimento dottrinario e giurisprudenziale, il condominio si costituisce per il sol fatto della cessione della prima unità immobiliare da parte dell'originario unico proprietario.

Le soglie numeriche previste, ad esempio, per la nomina dell'amministratore non hanno rilievo rispetto alla costituzione del condominio, che, si ribadisce, avviene nel momento indicato.

Di conseguenza: se Tizio vende a Caio e non dice nulla su di una determinata parte dell'edificio che, data la sua conformazione e destinazione, deve considerarsi comune (vedi proprio il caso dei parcheggi), come potrà poi dire a Sempronio, "ti vendo tutto ma non quella parte comune che resta solamente mia"?

Le parti destinate all’uso comune possono suddividersi in 3 categorie:
- parti formanti la struttura stessa dell’edificio; scale, atrio, facciate, suolo su cui sorge l'edificio, muri maestri, ecc.
- locali accessori, necessari all’uso dell’edificio da parte dei vari condomini.
- impianti destinati a servizi comuni
Il rapporto tra il valore della proprietà di ciascun condomino e il valore dell'intero condominio è espresso in millesimi. Le tabelle millesimali si utilizzano per la ripartizione delle spese condominiali, per la determinazione delle maggioranze di costituzione delle assemblee e per le votazioni delle delibere.

Il condominio è un tipo particolare di comunione. Si verifica quando in un edificio con più unità immobiliari, accanto ai beni di esclusiva proprietà di più persone sono presenti altri beni, ovvero le parti comuni, in regime di comproprietà tra i condomini. Tale comunione è forzosa, ossia un proprietario non può rinunciare al diritto su tali parti comuni per sottrarsi al pagamento delle spese , data l’indivisibilità necessaria delle parti comuni dell’edificio in condominio (art. 1118, comma 2, c.c.).

In tema di danni da infiltrazioni, qual è la misura del risarcimento che il proprietario dell'unità immobiliare danneggiata può chiedere al custode della cosa dalla quale tale danno proviene?
La questione non è di poco conto, in quanto un'infiltrazione, apparentemente limitata in uno specifico punto di uno dei vani dell'abitazione, potrebbe causare un danno ben più ampio.


Come dire: non sempre la misura del risarcimento può essere limitata a mettere una pezza laddove il danno sia stato maggiore in termini sostanziali della puntuale individuazione della parte ammalorata.
La questione, che sovente crea litigi in quanto il danneggiante ritiene esagerate le richieste del danneggiato, è stata trattata dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 12920 depositata in cancelleria il 23 giugno 2015.
Vediamo in che modo.
Prima di entrare nel merito è utile ricordare che il caso di danno da infiltrazioni rappresenta una classica ipotesi di danno da cose in custodia ai sensi dell'art. 2051 c.c.
In pratica il custode del bene dal quale proviene il danno (e che non sia mero elemento di passaggio della causa stessa del nocumento, ad esempio il piano intermedio tra quello danneggiato e quello da cui proviene il danno stesso) è responsabile di tali danni a titolo di responsabilità obiettiva, ossia è sempre responsabile, eccezion fatta per le ipotesi di caso fortuito.
Questa la conclusione cui, ormai da anni, giunge la Suprema Corte di Cassazione quando viene investita di cause aventi ad oggetto danni da infiltrazioni (cfr. tra le tante Cass. 10 ottobre 2012 n. 17268).


Quale danno va risarcito?
Esempio: dall'appartamento di Tizio provengono infiltrazioni nell'appartamento sottostante, di proprietà di Caio. Quest'ultimo richiede al vicino di eliminare la causa dell'infiltrazione ed a titolo di risarcimento la somma di € 2.000,00. Egli ritiene che l'intervento che dovrà eseguire non può essere limitato alla sola ritinteggiatura della parte danneggiata, ma al rifacimento della vernice di tutta la stanza. Motivo? Era stata ritinteggiata da poco e la "pezza" consistente nella sistemazione della sola parte ove era apparsa la macchia sarebbe evidente.
L'esempio è nella sostanza il riassunto della questione che ha portato alla sentenza della Cassazione n. 12920. Come ha concluso la Corte?
Secondo gli ermellini "il proprietario di un immobile, il quale domandi il risarcimento dei danni ad esso cagionati in conseguenza delle infiltrazioni provenienti da un appartamento sovrastante, essendo state danneggiate talune parti che, per esigenze di uniformità, richiedano un più esteso intervento ripristinatorio delle condizioni di normale abitabilità del bene rispetto ai singoli punti danneggiati, ha diritto di conseguire il rimborso dell'intera somma occorrente per tale lavoro, trattandosi di esborso necessario per la totale eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli dell'illecito, che non può essere addossato al danneggiato stesso" (Cass. 23 giugno 2015 n. 12920).
Come dire: Tizio fa bene a chiedere 2.000,00 euro. Chiaramente laddove la stanza non fosse stata tinteggiata a nuovo ma fosse in stato non buono, il giudice non potrebbe non tenere conto di questa circostanza.
Danni da infiltrazioni da parti comuni, perché sono responsabili tutti i condòmini in solido?
In sostanza se da un lato il danneggiato non può vedersi pregiudicato per gli effetti indiretti del danno da infiltrazione (ossia dover di nuovo dipingere l'intera stanza per non fare vedere la differenza), allo stesso modo il danneggiante non può sobbarcarsi il costo dei miglioramenti complessivi di cui il danneggiato di avvantaggerebbe dopo il danno stesso (cioè non si può addossare al danneggiante l'intero costo del miglioramento - leggasi rinnovo tinta delle pareti - che s'è deciso di eseguire in conseguenza delle infiltrazioni al fine di non fare notare la differenza). Si tratta del così detto principio, di creazione dottrinario-giurisprudenziale della così detta compensatio lucri cum damno "in virtù del quale la quantificazione del danno risarcibile deve tener conto degli eventuali vantaggi per il danneggiato che traggono origine direttamente" (Fonte: E-glossa http://www.e-glossa.it/wiki/''compensatio_lucri_cum_damno''.aspx).


Fonte http://www.condominioweb.com/come-quantificare-i-danni-da-infiltrazione.11937#ixzz3mMUdbJId
www.condominioweb.com

Quando si deve chiamare in causa un condominio per una qualunque controversia che veda la compagine parte interessata, a quale indirizzo si deve far notificare l'atto di citazione al fine di ritenere ritualmente effettuata la suddetta comunicazione?
Alla domanda, di recente, ha risposto la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 17474 resa il 2 settembre 2015.
Che cos'è un condominio?
Bella domanda, direbbe qualcuno. Bella domanda senza risposta certa, aggiungiamo noi. Perché? Perché la legge non chiarisce, dal punto di vista della gestione, se il condominio debba essere considerato un soggetto di diritto, oppure nulla.
Per anni s'è sentito dire che il condominio è un ente di gestione privo di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti. Poi, correva l'anno 2008, la Cassazione diede un brusco stop a questa impostazione: in quell'occasione (cfr. Cass. SS.UU. n. 9148/08) gli ermellini sentenziarono che condominio ed ente di gestione non hanno nulla in comune e che il condominio, giuridicamente parlando, non esiste.
La legge n. 220/2012 (la così detta riforma del condominio) potrebbe aver smosso questa situazione. Non è raro (nella pur limitata quantità di sentenze rese dopo l'entrata in vigore della legge) trovarsi davanti a pronunce giurisprudenziali che considerano il condominio un entità distinta dai singoli partecipanti, sia pur senza avere autonoma personalità giuridica. Un centro d'imputazione d'interessi, si dice.
Nuova legge, nuove sentenze, nuova vita al condominio?
In questo contesto e comunque in qualunque contesto lo si guardi, il condominio, quando ne è dotato, è rappresentato da un amministratore, ossia da un mandatario che pone in essere atti giuridicamente rilevanti in nome e per conto dei suoi rappresentati.
Ne discende che la notifica dell'atto debba essere fatta all'amministratore? Certamente, almeno questo sembra disporre anche il secondo comma dell'art. 1131 c.c.
E dove si può notificare l'atto? Al riguardo la Corte di Cassazione ha affermato che “la notifica di un atto indirizzato al condominio, qualora non avvenga nelle mani dell'amministratore, può essere validamente fatta nello stabile condominiale soltanto qualora in esso si trovino locali destinati allo svolgimento ed alla gestione delle cose e dei servizi comuni (come ad esempio la portineria), idonei, come tali, a configurare un ufficio dell'amministratore, dovendo, in mancanza, essere eseguita presso il domicilio privato di quest'ultimo” (Cass. n. 11303/2007).
In buona sostanza: in primis è bene indirizzare l'atto presso l'ufficio dell'amministratore e solo eventualmente, ad esempio perché si sa che c'è un portiere (Cass. n. 377/1988), presso lo stabile. In questo contesto la così detta targa dell'amministratore dovrebbe aiutare ad individuare l'indirizzo giusto.
E se il condominio non ha un amministratore? A chi notificare l'atto di citazione in giudizio? A tutti i condòmini? Ad un solo di essi? Oppure?
Al riguardo le soluzioni sono due:
a) poiché il condominio non ha personalità giuridica, nessun condomino, senza regolare nomina, può essere considerato rappresentante degli altri e quindi se non v'è amministratore l'atto dovrà essere notificato a tutti gli interessati, cioè a tutti i condòmini;
b) in alternativa si può seguire la procedura indicata dall'art. 65 disp. att. c.c. che consente di chiedere al Tribunale la nomina di un curatore che rappresenti tutti i condòmini.


Fonte http://www.condominioweb.com/latto-di-citazione-in-giudizio-a-chi-va-notificato.12080#ixzz3mMTIYICl
www.condominioweb.com

La notificazione eseguita, ai sensi dell'art. 139 c.p.c., a persona non legata al destinatario da rapporti "di famiglia", cioè di parentela o di affinità, nè di servizio, quale "addetta alla casa", è da considerare nulla anche se, come nel caso di specie, tale persona sia trovata nell'abitazione del destinatario; mentre è stata ritenuta valida la notifica nel diverso caso di non provata convivenza (che può essere presunta), quando però sussista la relazione di parentela o affinità fra il destinatario e la persona che ricevette la notifica.

Moschee, Sale del Regno ed altri simili luoghi di culto.

Quando fanno capolino nei locali a piano terra, quasi sempre con accesso diretto dalla strada pubblica, qualcuno storce il naso.

Non sono questi il momento e la seda di affrontare analisi sociologiche sulla tolleranza delle così dette religioni minoritarie e sul grado di integrazione in Italia.

Ciò nonostante vale la pena comprendere se chi ritiene sgradite quelle presenze (il riferimento è solamente al rumore ed al fastidio arrecato dalle assemblee) possa decidere di ottenerne la rimozione.

La risposta, la diamo fin da subito per poi spiegarne il perché, è negativa: moschee ed altri luoghi di culto non possono essere “cacciati” dal condominio. Di più: la loro presenza non può essere vietata a priori.

Sicuramente un simile divieto non può essere contenuto nel regolamento assembleare; esso, lo si sa, serve solamente a regolamentare la gestione delle parti comuni, la ripartizione delle spese, l’uso delle cose comuni ed in genere quelle sulla tutela del decoro dell’edificio. Limitare i diritti dei singoli sulle cose di proprietà esclusiva non può essere oggetto di normazione per un simile atto.

Diversa la situazione, qualcuno potrebbe pensare, per il regolamento contrattuale. La giurisprudenza, costantemente, ha avuto modo di affermare che “l'autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che limitano il diritto dominicale di tutti o alcuni dei condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà, nell'interesse di tutto il condominio o di una sua parte, e che vietano, in particolare, a tutti o ad alcuni dei condomini di dare alle singole unità immobiliari una o più destinazioni possibili, ovvero li obbligano a preservarne le originarie destinazioni per l'utilità generale dell'intero edificio, o di una sua parte" (Cass. 19 ottobre 1998 n. 10335).

In sostanza si potrebbe essere indotti a concludere le modo seguente: i regolamenti contrattuali possono vietare la presenza in condominio di luoghi di culto.

Errato. Perché?

La risposta è semplice: la libertà di culto, che si estrinseca anche nella possibilità di partecipare liberamente ai riti e di non vederli impediti assurge a diritto fondamentale garantito dalla nostra Costituzione. Insomma i contratti non possono limitarlo.

In questo contesto è utile domandarsi: le riunioni devono comunque rispettare determinate norme?

Al riguardo è interessante ricordare una sentenza del Tribunale di Roma. Era il maggio del 2011 quando il Tribunale capitolino, in materia di suono delle campane, specificò che deve “la vicinanza tra le strutture parrocchiali e l’immobile abitato dai ricorrenti, agevolmente evincibile anche dalla rappresentazione aerea dei luoghi (all. 1 produzione parte ricorrente) e l’orario mattutino dello scampanio sono circostanze valorizzabili per inferire una valenza immissiva del conseguente suono che, in ragione della sua protrazione, anche se estesa – secondo l’assunto di parte resistente – per circa quarantacinque secondi al detto orario indubbiamente mattutino, appare travalicare la tollerabilità; le concorrenti esigenze, di tranquillità dei ricorrenti e di richiamo della parrocchia (estrinsecazione, quest’ultima, del diritto all’esercizio del culto, assistito da garanzia sia costituzionale (art. 7) che legislativa, espressa, quest’ultima, dall’art. 2 della legge 25.03.1985 n. 121, recante le modifiche al Concordato Lateranense dell’11 febbraio 1929) appaiono contemperabili ed entrambe perseguibili nella presente sede cautelare restringendo temporalmente lo scampanio delle ore 7,00 entro i venti secondi di rintocchi” (Trib. Roma 9 maggio 2011).

Detta diversamente: pregare si, ma senza disturbare oltremodo il vicinato

Fonte http://www.condominioweb.com/moschee-o-altri-luoghi-di-culto-in-un-condominio.1431#ixzz3mMaqhFO3
www.condominioweb.com

Non ci sono dati certi ma la realtà quotidiana ci parla di tanti, tantissimi condominii che non superano nove, dieci partecipanti che (nonostante gli obblighi di legge per quelle compagini con almeno nove condomini, cfr. art. 1129, primo comma, c.c.) non hanno un amministratore, ma non solo: si tratta di compagini gestite in modo completamente anarchico.

Quel condominio "senza condominio" di cui si parla nel titolo altro non è che la compagine che pur esistendo non s'è mai stata gestita come imporrebbe la legge.

In questi contesti, solitamente, un condomino volenteroso paga le bollette, chiedendo ai suoi vicini le somme per farlo, si occupa della piccola manutenzione o comunque chiama mestieranti d'ogni genere o chiede alle ditte di eseguire i lavori senza particolari attenzioni alle norme. Il tutto, solitamente, condito dalla classica divisione dei costi in parti uguali.
(Ripartire le spese condominiali secondo i criteri di leggi o le decisioni dei condomini)

Queste situazioni possono andare avanti per anni senza particolari intoppi. Accade, poi, che il palazzo necessita di interventi più consistenti, insomma di essere sottoposta alla ben nota manutenzione straordinaria; ed è li che, l'armonia lascia spazio a tensioni e complicazioni.

Che cosa fare in questi casi?

A dire il vero la tensione può sorgere anche solamente per il disinteresse di uno o più condomini verso le parti comuni. In buona sostanza le soluzioni che andremo ad indicare è auspicabile siano poste in essere fin dalla nascita del condominio.

Proprio da quest'ultimo punto è bene partire.

Nascita del condominio

Il condominio non è un'associazione, una fondazione o una società: il condominio è una situazione di fatto riconosciuta a livello giuridico, il condominio è una particolare forma di comunione nella quale coesistono parti di proprietà esclusiva (le unità immobiliari) e parti comuni funzionali al godimento delle prime.
(La definizione del condominio dal punto di vista gestionale)

In questo contesto " il condominio sorge ipso iure et facto, e senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni, nel momento in cui l'originario costruttore di un edificio diviso per piani o porzioni di piano, aliena a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata, perdendo, in quello stesso momento, la qualità di proprietario esclusivo delle pertinenze e delle cose e dei servizi comuni dell'edificio" (così Cass. 4 ottobre 2004, n. 19829).

Il condominio, quindi, esiste fin dal momento in cui ci sono due proprietari. Stando così le cose è questo il momento in cui è necessario formalizzarne l'esistenza anche a livello fiscale.

Il condominio deve richiedere il codice fiscale e se non lo si fa i responsabili ( ergo i condomini) rischiano sanzioni (cfr. art. 13 d.p.r. n. 605/73).

In buona sostanza siccome il condominio esiste fin da subito e siccome le decisioni riguardanti le parti comuni devono essere prese in assemblea (salvo il caso dell'accordo tra tutti), se la gestione non va, o meglio proprio per farla andare sempre bene, è utile che si faccia tutto secondo le ordinarie regole.

Carta e penna e convocazione dell'assemblea (anche da parte di ciascun condomino se non v'è amministratore) nei modi e nei termini di cui all'art. 66 disp. att. c.c. A maggior ragione se devono essere prese decisioni economicamente rilevanti.


Fonte http://www.condominioweb.com/condominio-senza-condominio-che-cosa-fare-in-questi-casi.1905#ixzz3mMYb5yRk
www.condominioweb.com

Tribunale di Roma sentenza del 4 gennaio 2013 n. 65/2013

In ambito condominiale, il gazebo realizzato sul terrazzo di un appartamento senza l’osservanza della normativa in materia di distanze o vedute deve ritenersi legittimo qualora l’uso del bene comune sia avvenuto nel rispetto dei limiti di cui all’articolo 1102 del codice civile.

I fatti. Il proprietario dell’appartamento pos to al primo piano dello stabile condominiale costruiva nel proprio terrazzo un gazebo che giungeva a pochi centimetri dal piano di calpestio del balcone soprastante. La parte attrice, proprietaria dell’appartamento sito al secondo piano dell’edificio, sosteneva che l’opera ledeva il suo diritto di veduta, la sua sicurezza (minacciata da terzi malintenzionati che potevano più facilmente entrare nel suo appartamento agevolati dalla presenza del gazebo), nonché la salubrità dei luoghi dal momento che la copertura si era trasformata in un ricettacolo di fogliame e di escrementi di uccelli. Conseguentemente domandava la condanna della parte convenuta alla rimozione della copertura, alla riduzione in pristino dei luoghi, come pure al risarcimento dei danni.

La decisione. Il Tribunale di Roma, citando un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, ricorda che le norme in materia di distanze (artt. 873 ss. cod. civ.) e vedute (artt. 900 ss. cod. civ.) sono applicabili in ambito condominiale qualora ne risulti la compatibilità con la disciplina prevista per le cose comuni; in caso contrario, debbono considerarsi prevalenti le disposizioni ex articolo 1102 cod. civ. (Cass. Civ. n. 22092/2011).

Il condominio degli edifici, difatti, è contrassegnato dalla coesistenza “di una comunione forzosa con proprietà esclusive” e questo comporta la necessità di ricercare un bilanciamento tra le differenti esigenze ed i molteplici interessi di tutti i condomini.

Per questo motivo, ha ribadito la Suprema Corte che nel caso in cui la controversia riguardi rapporti di natura condominiale “trova applicazione esclusiva la normativa in tema di condominio degli edifici rispetto a quella che, nell’ambito dei rapporti di vicinato stabilisce le limitazioni legali fra proprietà confinanti che siano imposte con carattere di reciprocità indipendentemente dalla verifica di un pregiudizio derivante dalla loro inosservanza” (Cass. Civ. n. 7044/2004).

I limiti da rispettare. L’articolo 1102 cod. civ. specifica le condizioni in presenza delle quali è possibile considerare lecita la condotta del partecipante alla comunione; il limite dell’estensione del diritto di ciascun comunista deve essere rinvenuto nel consentire il pari uso della cosa da parte degli altri partecipanti, senza alcuna alterazione della cosa stessa.
In definitiva, laddove il giudice verifichi che l’impiego del bene comune si sia verificato nel pieno rispetto dei limiti statuiti dall’articolo 1102 cod. civ., l’opera deve ritenersi legittima seppur realizzata senza l’osservanza delle disposizioni previste in materia di luci e vedute.

Così disponendo, il Tribunale di Roma ha respinto la domanda di rimozione della copertura di un terrazzo costruita dal condomino del primo piano, presentata dell’inquilino del piano superiore.

Un condominio può chiedere al Comune la revoca dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività di asilo nido, svolta nei locali dello stabile condominiale, perché tale attività è in contrasto con il regolamento condominiale?
Il caso. Un condominio ha chiesto al Comune la revoca dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività di asilo nido svolta nei locali dello stabile condominiale, rilasciata ad una società conduttrice del locale, assumendo il contrasto tra l'attività di asilo nido e l'art. 15 del regolamento condominiale, come accertato dal Tribunale Civile a conclusione di un giudizio tra il condominio e la proprietaria (un'altra società) del locale locato.
Il Comune, con determina del Dirigente dei Servizi Educativi, Scolastici e Culturali del 2 dicembre 2012, disponeva l'archiviazione dell'istanza di revoca sulle considerazioni che la sentenza del Tribunale Civile non era definitiva, pendendo appello; che essa riguardava diritti di natura privatistica; che l'autorizzazione era rilasciata salvi i diritti dei terzi; che la revoca può essere disposta solo in presenza di fatti ostativi certi e definitivi.
Il condominio, quindi, impugnato avanti al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, determina dirigenziale.
La pronuncia di primo grado. Secondo il TAR, la circostanza sopravvenuta - nella specie "accertamento giudiziale dell'incompatibilità dello svolgimento dell'attività di asilo nido con l'assetto regolamentare del condominio" - incidendo sul requisito della disponibilità ed idoneità dell'immobile utilizzato per l'attività, risolvendosi nella mancanza di un fattore strumentale all'attività - imponeva al Comune di tenerne conto nell'esercizio del potere di autotutela sollecitato dal Condominio, non rilevando in contrario né la circostanza che la sentenza del Tribunale Civile […] che aveva accertato l'illegittimità dell'attività di asilo nido con le norme del regolamento condominiale, fosse stata resa tra soggetti terzi rispetto alla società che gestisce l'asilo, né che la sentenza del Tribunale civile non costituisse giudicato, essendo pur sempre esecutiva".
Infatti, è venuta meno la possibilità giuridica di esercitare al suo interno l'attività di asilo nido; che non potrebbe aversi riguardo esclusivamente al titolo civilistico che determina la disponibilità dell'immobile in capo alla società, omettendo di tributare la dovuta considerazione all'intervenuta preclusione, per effetto di una sentenza che, ancorché, non definitiva è immediatamente esecutiva, allo svolgimento all'interno di tale immobile di un'attività qualificata come contraria alle regole condominiali.
Contro tale sentenza è stato, quindi, proposto appello.
La sentenza del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello e confermato la sentenza di primo grado perché "la circostanza che la situazione controversa coinvolga rapporti di diritto privato, che dovrebbero trovare soluzione nella sede civile, non esclude che possa e debba trovare componimento in sede amministrativa e nell'ambito del procedimento amministrativo, che per come disciplinato dalla normativa vigente, attraverso il contraddittorio tra le parti interessate e l'acquisizione di tutti gli elementi rilevanti alla decisione finale, è volto a prevenire, per quanto possibile, le controversie tra privati.
Ove la fattispecie venga inquadrata, quindi, nel più ampio contesto socio - economico, caratterizzato dalla compresenza di una pluralità di interessi e diritti facenti capo a soggetti diversi ed operanti su diversi piani, la circostanza che dal punto di vista meramente pubblicistico un'attività sia consentita, non esclude che all'esercizio ostino ragioni operanti sul diverso piano dei rapporti tra privati e che l'amministrazione nell'esercizio del potere decisionale non debba tenere debito conto di esse. (Questo condominio non è una pensione.)
In tale ottica, non assume carattere assorbente:
né la presenza di tutti i requisiti di ordine soggettivo e oggettivo previsti dalla normativa di settore per l'esercizio dell'attività di asilo nido,
né che l'immobile abbia la destinazione d'uso per l'esercizio dell'attività di asilo nido,
né che l'immobile sia idoneo all'attività dal punto di vista strutturale e igienico - sanitario.
Infatti, ciò che è rilevante "è la tutela dei diritti dei terzi, cui sono sempre subordinati gli atti di assenso dell'amministrazione all'esercizio di attività regolamentate, che come detto, non si risolve nella clausola "con salvezza dei diritti dei terzi" che chiude il provvedimento amministrativo, richiedendosi all'amministrazione una più accurata verifica della sussistenza di tali diritti, perlomeno, allorché ne acquisisca la conoscenza, perché fatti valere proprio dai titolari dei diritti.
La insufficiente e inadeguata valutazione di tutti gli elementi suddetti evidenzia l'illegittimità del provvedimento di archiviazione oggetto di impugnazione"
Tale clausola, infatti, non esclude che già in sede di procedimento amministrativo debba aversi riguardo alle situazioni di contrasto tra privati e ove possibile consentire accomodamenti e soluzioni, ove gli interessi privati contrapposti vengano in rilievo e siano portati a conoscenza dell'amministrazione.
Conclusione. Se il regolamento condominiale non consente l'attivazione di asili nido negli immobili condominiali e nell'autorizzazione rilasciata dal comune è stata riportata la clausola "fatti salvi i diritti di terzi", l'efficacia del provvedimento autorizzatorio dovrebbe venir meno dopo l'accertamento del giudice civile dell'incompatibilità di tale attività con il regolamento.


Fonte http://www.condominioweb.com/asili-nido-in-condominio.11544#ixzz3mMXYiv7i
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L'art. 1138 cod. civ. si limita a stabilire che la formazione del regolamento, per disciplinare l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, è obbligatoria quando il numero dei condomini è superiore a dieci, ma non pone affatto l'obbligo della sua redazione a carico del venditore delle singole unità abitative di cui è composto il condominio, che sia anche costruttore dello stabile. La conclusione che un tale obbligo ricada su quest'ultimo e non, come invece appare logicamente implicito nella norma, a carico dei singoli condomini, costituisce, pertanto, un palese errore di interpretazione ed applicazione del dettato normativo, del tutto priva di fondamento giuridico.

Il regolamento di condominio, al pari di qualunque delibera assembleare, dev'essere approvato per forma scritta e le modifiche al medesimo, dovendo essere adottate sempre dall'assemblea, non possono non avere la medesima forma. Ciò vale ancor di più per il regolamento di natura contrattuale posto che con il medesimo si impongono limiti, se non addirittura vere e proprie servitù, ai diritti dei singoli.

In questo contesto anche il costruttore, al pari di qualunque condomino, deve rispettare il regolamento anche se da lui stesso redatto.

Questa, in sintesi, il contenuto della sentenza n. 2668 resa dalla Corte di Cassazione lo scorso 5 febbraio.

Nel caso sottoposto all'attenzione degli ermellini e prima ancora dei giudici di merito, un condominio aveva promosso un'azione legale contro un condomino (il costruttore) proprietario di un'unità immobiliare a piano terreno, reo, secondo la compagine, di aver trasformato i locali destinati ad autorimessa in scuola, prima, e casa di riposo, dopo.

Il tutto, si legge nella ricostruzione dei fatti, contenuta in sentenza, contro le disposizioni del regolamento condominiale.

Il costruttore obiettava che lui, in quanto redattore del regolamento, non doveva rispettare poiché lo stesso era rivolto solo ai condomini (sic!) e che comunque doveva considerarsi raggiunta un'intesa tacita che doveva essere considerata alla stregua di una modificazione verbale del regolamento medesimo.

Persa la causa in primo e secondo grado il condomino-costruttore si rivolge alla Cassazione, che gli da torto.

Nella sentenza non viene dedicato molto spazio allo stravagante motivo dell'esonero dal rispetto del regolamento; la Corte si limita a specificare che è infondato.

Più articolata la motivazione riguardante la forma che dev'essere assunta dalle modificazioni alle clausole regolamentari.

Si legge in sentenza che "la formazione del regolamento condominiale è soggetta al requisito della forma scritta ad substantiam, desumendosi la prescrizione di tale requisito formale, sia dalla circostanza che l'art. 1138 c.c., u.c. prevedeva (nel vigore dell'ordinamento corporativo) la trascrizione del regolamento nel registro già prescritto dall'art. 71 disp. att. cod. civ., sia dalla circostanza che, quanto alle clausole del regolamento che abbiano natura soltanto regolamentare (e siano perciò adottabili a maggioranza), trova applicazione l'art. 1136 cod. civ., comma 7 che prescrive la trascrizione delle deliberazioni in apposito registro tenuto dall'amministratore (onde anche la deliberazione di approvazione di tale regolamento per poter essere trascritta deve essere redatta per iscritto), mentre, quanto alle clausole del regolamento che abbiano natura contrattuale, l'esigenza della forma scritta è imposta dalla circostanza che esse incidono, costituendo oneri reali o servitù, sui diritti immobiliari dei condomini sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni oppure attribuiscono a taluni condomini diritti di quella natura maggiori di quelli degli altri condomini.

In questo contesto di carattere generale, prosegue la Cassazione, "ne discende che il requisito della forma scritta ad substantiam (che non può intendersi, d'altro canto, stabilito ad probationem, poichè quando sia necessaria la forma scritta, la scrittura costituisce elemento essenziale per la validità dell'atto, in difetto di disposizione che ne preveda la rilevanza solo sul piano probatorio) deve reputarsi necessario anche per le modificazioni del regolamento di condominio, perchè esse, in quanto sostitutive delle clausole originarie del regolamento, non possono non avere i medesimi requisiti delle clausole sostituite, dovendosi, conseguentemente, escludere la possibilità di una modifica per il tramite di comportamenti concludenti dei condomini (così Cass. Sez. Un. n. 943/1999: sulla base di tali principi le Sezioni Unite hanno cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto modificata una clausola di natura contrattuale di un re golamento condominiale, vietante la sosta dei veicoli nel cortile comune, per effetto del comportamento di costante esecuzione di u na delibera modificativa adottata invalidamente a maggioranza e non all'unanimità, come esigeva quella natura; a tale pronunzia adde, più di recente: Cass. Sez. 2 n. 17694/2007; Cass. Sez. 2, n. 24146/2004; Cass. Sez. 2, 5626/2002)" (Cass. 5 febbraio 2013 n. 2668).

Il cortile comune di un edificio in condominio non può essere gravato da una servitù d’uso esclusivo, prevista dal regolamento di condominio, a favore del proprietario dell’unità immobiliare posta al pian terreno. Non può essere per la funzione del regolamento e perché la servitù prevede un’utilitas strettamente connessa al beneficio per il fondo dominante e non alla persone del suo proprietario. Il fatto che, poi, l’esercizio spetti a quest’ultimo è cosa naturale: il fondo non vive di vita propria.

Questa, in sostanza, la decisione cui è giunta la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 6582 dello scorso 27 aprile. Si legge nella pronuncia che “ deve escludersi che un regolamento di condominio, per sua natura finalizzato a disciplinare l'uso dei beni comuni da parte dei condomini, possa costituire un diritto di servitù su di un bene comune in favore di un bene di proprietà esclusiva di uno dei condomini; se invero il regolamento di condominio, nel disciplinare l'utilizzazione delle cose comuni, può limitare il godimento su di esse da parte di uno o più condomini, non può peraltro restringere tale uso fino a svuotarlo di qualsiasi contenuto, come appunto pretenderebbe nella fattispecie il ricorrente con riferimento all'area cortilizia in questione; tale conclusione è confermata dal rilievo che l'invocato diritto di servitù d'uso a carico della corte comune ed in favore dell'appartamento al piano terreno del fabbricato (consistente nel divieto imposto agli altri condomini dell'uso del cortile antistante l'appartamento al piano terreno, uso riservato in via esclusiva al proprietario di tale immobile) comporterebbe inammissibilmente non già un semplice peso imposto al fondo servente (art. 1027 c.c.), ma un totale annullamento di ogni facoltà di suo godimento da parte del (…) e della (…) , che pure ne sono comproprietari.

Del resto la possibilità di configurare l'uso esclusivo su di un bene comune da parte di un condomino proprietario di una unità immobiliare come una servitù comporta la necessità di accertare la sussistenza della "utilitas" di cui all'art. 1027 c.c., ovvero di un vantaggio diretto ed oggettivo del fondo dominante, a prescindere quindi dal fatto che tale diritto possa giovare al proprietario di tale fondo, posto che l’”utilitas" non deve riguardare l'attività che si svolge sul fondo, ma deve ricollegarsi alla utilizzazione del fondo stesso; in proposito peraltro il ricorrente non ha svolto alcuna apprezzabile deduzione” (Cass. 27 aprile 2012 n. 6582).

Insomma per quanto l’uso esclusivo di un bene comune non sia di per sé vietabile ed anzi, i regolamenti (contrattuali) e gli atti d’acquisto possono legittimamente contenerli, per ciò che riguarda la servitù il discorso è più complesso: questo diritto reale su cosa altrui ha requisiti ben precisi e per istituirlo non basta imporlo ma è necessario che ricorrano le condizioni previste dalla legge. L’utilitas è uno di questi.

Fonte http://www.condominioweb.com/il-cortile-comune-di-un-edificio-in-condominio-non-puo-essere-gravato.993#ixzz3mMcSkOqt
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Se il regolamento condominiale vieta ai condomini di apportare varianti di qualsiasi genere alle pareti esterne del fabbricato, la caldaia per il riscaldamento non può essere collocata sulla facciata condominiale anche se non altera l’aspetto estetico.

Nella sentenza si legge:
"Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, lett. m) del regolamento di condominio, in relazione al concetto di “variante” e alla portata restrittiva e vincolante del regolamento stesso. Sotto il primo profilo si deduce che il termine “variante”, riportato nella citata previsione, deve essere inteso in senso tecnico-edilizio, come documento che mira a modificare una concessione precedente o un progetto o un piano regolatore già approvato.

Sotto il secondo aspetto, si sostiene che la norma del regolamento condominiale in questione non presenta le caratteristiche per restringere le facoltà contenute nel diritto di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in quanto è equivoca, foriera di interpretazioni discordanti, non adeguatamente prescrittiva e superata, successivamente, dalla comune intenzione delle parti e da contrastanti usi condominiali.

1.1. - Il motivo è infondato in entrambe le censure in cui si articola. Occorre innanzi tutto precisare che la titolazione del motivo è da ritenere erronea, come pure l’affermazione che il regolamento condominiale in oggetto sia “una integrazione del codice civile” (v. pag. 7 del ricorso).

Il regolamento di condominio che abbia natura (o meglio origine) contrattuale (o esterna) come nella specie ha ritenuto la Corte d’appello, con accertamento non oggetto di censura - è in ogni caso atto di produzione essenzialmente privata anche nei suoi effetti tipicamente regolamentari, incidenti, cioè, sulle sole modalità di godimento delle parti comuni dell’edificio. A conferma di ciò può osservarsi che - come si ritiene in dottrina - il giudice può approvare il regolamento formato su iniziativa di un condominio, ex art. 1138, comma 2 c.c., ma non predisporlo a propria cura; che nel caso di sua adozione giudiziale l’efficacia cogente del regolamento nei confronti dei condomini dissenzienti è mediata dall’art. 2909 c.c. (cfr. Cass. n. 1218/93); e che l’estensione dell’efficacia di esso anche a coloro i quali non presero parte alla sua formazione è attuata propter rem, lì dove, per contro, il dovere di osservanza di un atto (eteronomo e dunque) propriamente normativo prescinde, per il grado di generalità ed astrattezza che lo assiste, da una necessaria ambulatorietà passiva. Pertanto, le norme del regolamento condominiale contrattuale non sono suscettibili di sindacato in sede di legittimità sotto il profilo della violazione o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c..

Deve ulteriormente rilevarsi, quindi, che il motivo in esame deve essere riqualificato e riguardato soltanto sotto il n. 5 del primo comma dell’art. 360 c.p.c., nei limiti in cui ne offre spunto.

1.1.1.- Con la prima censura parte ricorrente contesta l’interpretazione che la Corte d’appello ha fornito della citata norma del regolamento condominiale quanto alla nozione di “variante” ivi contenuta, che si sostiene debba essere intesa nell’accezione tecnico-giuridica di cui all’art. 32 D.P.R. n. 380/01, recante il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.

Sebbene non menzionato (e richiamato, invece, in ordine alla seconda censura) l’unico criterio ermeneutico astrattamente coordinabile con il senso della critica è costituito dall’art. 1362 c.c. e dal principio dell’interpretazione letterale come tecnica primaria di verifica della volontà delle parti.

Ciò posto, e data la frequente polisemia delle parole d’uso corrente (nei sistemi linguistici indoeuropei), è compito del giudice di merito valutare se una data espressione sia stata adoperata dalle parti secondo l’una o l’altra accezione possibile, fermo restando che proprio l’esclusa sindacabilità della norma condominiale sotto il profilo della violazione di legge estromette, quale surrettizia riedizione di un controllo di tal genere, l’ipotesi che detta interpretazione debba avvenire necessariamente e prioritariamente favorendo i significati tecnico-giuridici.

1.1.1.1. - Nello specifico, la sentenza impugnata ha attribuito alla parola ‘”variante” un significato non tecnico, ma di senso comune e di portata più ampia. La Corte subalpina ha osservato, infatti, che con il vietare “qualsiasi variante” l’art. 5, lett. m) del regolamento di condominio non è volto soltanto ad evitare interventi o varanti di natura sostanzialmente straordinaria, insite nel concetto di variante propugnato dalla parte (in allora) appellante, ma è diretta a comprimere anche interventi di più modesta portata costruttiva o di minore impatto estetico, che tuttavia introducano, per le singole porzioni in proprietà esclusiva, un uso personalistico delle parti comuni dell’edificio, nello specifico le pareti esterne, che verrebbero invece singolarmente caratterizzate proprio dalle esigenze di ciascun condomino, con sostanziale alterazione e turbamento della complessiva uniformità estetica e funzionale dell’edificio.

Tale motivazione è da ritenere senz’altro sufficiente e congrua, poiché da un lato coerente al senso comune delle parole adoperate nella previsione regolamentare, e dall’altro adeguatamente esplicativa delle ragioni per cui non è stata ritenuta plausibile la tesi del rimando ad una nozione tecnico-giuridica dell’espressione in esame.

1.1.2. - Anche la seconda censura del primo motivo è priva di basi sotto il profilo del vizio motivazionale.

La Corte territoriale, infatti, ha osservato, quanto all’assertivo rilievo di condotte condominiali pregresse di segno contrario al divieto di cui all’art. 5, lett. m) del regolamento, che comportamenti ispirati a scarso rispetto di norme regolamentari di per sé chiare non potrebbero assurgere ad interpretazione delle stesse, allorché anche un singolo condomino manifesti il proprio dissenso, lamentandone la specifica violazione, nell’esercizio del proprio diritto sulle parti comuni; e che prassi o usi contrattuali non potrebbero modificare il regolamento, per difetto del requisito di forma scritta ad substantiam.

Motivazione, questa, del tutto congrua anche in rapporto alla dedotta non prescrittività della disposizione, ove si consideri che o la norma del regolamento non possiede sufficiente chiarezza e univocità, ed allora neppure si pone il problema dei limiti e della forma richiesta per modificarla, essa dovendosi considerare come improduttiva di effetti; o la medesima è in sé valida ed efficace, ed allora resta intatta e non scalfibile l’osservazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui ogni modificazione richiede la forma scritta e sono irrilevanti, ai fini interpretativi, le condotte non comuni a tutti i condomini.

2. - Con il secondo motivo la sentenza d’appello è censurata per insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360 n. 5 c.p.c..

Si sostiene al riguardo che la Corte subalpina da un lato ha affermato che se non fosse affermata l’operatività dell’art. 5, lett. m) del regolamento condominiale le pareti esterne dell’edificio potrebbero essere alterate nella loro uniformità estetica dall’intervento dei singoli condomini, dall’altro ha ritenuto condivisibile l’assenza d’impatto estetico, essendo state realizzate le due nicchie in maniera tale da mimetizzarsi con la facciata dell’edificio. Pertanto, deduce parte ricorrente, delle due l’una: o la modifica della facciata ha alterato le strutture portanti dell’edificio, oppure tale alterazione è praticamente invisibile dal punto di vista estetico, e dunque irrilevante.

2.1. - Il motivo è infondato, perché non coglie la ratio decidendi. Il giudice d’appello, invero, pur condividendo “del tutto incidentalmente” che le opere eseguite dai P. - V. non avessero avuto in concreto alcun impatto estetico sull’edificio, ha tuttavia osservato - ben vero per mero scrupolo di completezza, visto che gli odierni ricorrenti avevano formulato un motivo di gravame sovrabbondante, non avendo il giudice di primo grado fondato la sua decisione sull’alterazione delle componenti estetiche della parete condominiale - che era irrilevante l’insussistenza della violazione della diversa norma del regolamento (art. 5, lett. h) che vieta innovazioni che alterino l’aspetto esteriore dell’edificio. La Corte subalpina, cioè, si è limitata a condividere il giudizio espresso dal Tribunale, ossia che il divieto netto e tassativo dì cui all’art. 5, lett. m) non sarebbe comunque superabile da alcuna valutazione positiva circa l’assenza d’impatto estetico delle opere controverse. Deve, pertanto, escludersi ogni contraddittorietà della motivazione."

Fonte http://www.condominioweb.com/condominio/sentenza1940.ashx#ixzz3mMf6BFKb
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L'accensione del riscaldamento centralizzato negli stabili in condominio suscita spesso dei litigi e polemiche: la sensibilità al freddo é, per alcuni aspetti, soggettiva. Ed anche le diverse esigenze e stili di vita portano a delle necessità di riscaldamento diverse che spesso sono incompatibili fra loro. E’ diversa l’esigenza di un pensionato che è sempre in casa e che la sera va a letto presto da quella di una persona che torna a casa solo la sera tardi. E da queste ovvie necessità nascono le discussioni su quanto e come deve essere acceso l’impianto di riscaldamento.

Pochi sanno che il periodo di accensione degli impianti di riscaldamento condominiali e' regolato dall'articolo 9 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 412 del 26/8/1993, che prima di tutto ordina che gli impianti di riscaldamento debbano essere gestiti in maniera tale da non superare le temperature sancite dall'art. 4 dello stesso DPR, ovvero 20 gradi (circa, c'e' una certa tolleranza). Per quanto riguarda invece orari e periodo di accensione, il territorio italiano viene diviso in sei zone climatiche: Zona A: 6 ore giornaliere dal I dicembre al 15 marzo; Zona B: 8 ore giornaliere dal I dicembre al 31 marzo; Zona C: 10 ore giornaliere dal 15 novembre al 31 marzo; Zona D: 12 ore giornaliere dal I novembre al 15 aprile; Zona E: 14 ore giornaliere dal 15 ottobre al 15 aprile; Zona F: nessuna limitazione.Tali valori, e' bene precisarlo, sono i valori massimi di servizio: nessuna Legge impone un minimo, a parte in alcuni casi che non hanno interesse per i nostri lettori. Al di fuori di tali periodi gli impianti termici possono essere attivati solo in presenza di situazioni climatiche che ne giustifichino l'esercizio. Se desiderate conoscere a quale zona climatica appartiene la vostra zona, su internet esiste un elenco più dettagliato del nostro elenco più dettagliato messo a disposizione dalla confedilizia in http://www.confedilizia.it/clima-ZONE.htm

L’accensione continua è concessa solo ad impianti di nuovo tipo, formati da una caldaia ad alto rendimento e provvisti di cronotermostato, agli impianti con contabilizzazione del calore, a teleriscaldamento, a riscaldamento a pavimento e a quelli sottoposti a un contratto di servizio energia stipulato con un’impresa che si assume la responsabilità del controllo.

In linea di massima (soprattutto nelle zone più fredde, a partire dalla lettera "c", l’assemblea nella delibera di accensione dell’impianto (e nell’approvazione del relativo preventivo di gestione) utilizza il massimo delle ore consentite dalla Legge. Ma non è escluso in qualche assemblea fatta da “risparmiatori” si possa validamente deliberare di erogare il servizio per un orario ridotto rispetto a quello massimo. Ed in questo caso, se la delibera è presa dalla maggioranza ed il regolamento di condominio non dispone altrimenti, c’è poco da fare se non provvedere ad una integrazione del riscaldamento erogato privatamente e con delle stufe.

Un problema invece che si presenta spesso e' quello della doppia accensione dell'impianto: da un lato un gruppo di condomini pretende che l'impianto venga acceso sia la mattina che il pomeriggio, in modo da svegliarsi e coricarsi al caldo, mentre invece altri, con diverse esigenze, preferiscono che le ore destinate al riscaldamento vengano consumate in un'unica soluzione. In realtà questa seconda soluzione, dal punto di vista del risparmio, e' più conveniente per i condomini: nel caso della doppia accensione si consuma una certa quantità di combustibile in più per far si che l'acqua calda che riscalda l'impianto per ben due volte raggiunga la temperatura di esercizio partendo da freddo. Comunque l’articolo 9 comma 3 risolve ogni contestazione, chiarendo che “E' consentito il frazionamento dell'orario giornaliero di riscaldamento in due o più sezioni” (ad esempio: mattina e sera). Anche questa decisione deve essere presa dall’assemblea dei condomini a maggioranza.

Ma se da un lato sappiamo adesso quali sono i limiti massimi di accensione, i veri problemi debbono ancora emergere: uno dei più comuni, ad esempio, e' quello del condomino che, nonostante l'impianto di riscaldamento sia acceso, "ha freddo".In primo luogo questi condomini debbono controllare il loro appartamento, eliminando tutti quei fattori che possono portare ad una perdita di calore (finestre che chiudono male, tapparelle non ben coibentate) ed installando quegli accorgimenti che possono migliorare la tenuta del calore (doppi vetri, pannelli termoriflettenti dietro i termosifoni, aumento della superfice radiante). Se anche questo non basta, il condominio dovrà intervenire: infatti la giurisprudenza e' costante nello statuire il diritto del condomino affinché l'impianto di riscaldamento sia strutturato in modo da assicurare, nelle ore di accensione, un uniforme riscaldamento a tutti gli appartamenti, anche per mezzo di una maggiore fruizione del servizio comune (ad esempio: aumentare la superficie radiante)

Il sindaco non dispone dei poteri per disciplinare/vietare l’attività di recapito nelle cassette postali, o per subordinare al possesso di un titolo autorizzativo lo svolgimento di un’attività deve ritenersi libera anche presso abitazioni e domicili privati.
Nella specie il Sindaco ha erroneamente “accomunato attività diverse quali il recapito nelle cassette postali, o in quelle a ciò dedicate, ed volantinaggio per strada e/o la distribuzione su autoveicoli in sosta o circolazione”, appropriandosi illegittimamente di competenze che non gli appartengono.

Fonte http://www.condominioweb.com/condominio/sentenza2215.ashx#ixzz3mMbx3Pvw
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Al fine di attivarsi per far cessare gli abusi, l’amministratore non necessita di alcuna previa delibera assembleare, posto che egli è già tenuto ex lege (articolo 1130 comma 1 C.c.) a curare l’osservanza del regolamento del condominio al fine di tutelare l’interesse generale al decoro,a lla tranquillità ed all’abitabilità dell’edificio; ed è altresì nelle sue facoltà, ai sensi dell’articolo 70 disp. att. Cc, anche quella di irrogare sanzioni pecuniarie ai condomini responsabili di siffatte violazioni del regolamento ove lo stesso preveda tale possibilità.

L'amministratore del condominio può nominare un capo scala per riscuotere le quote condominiali e i pagamenti relativi ai consumi dell'acqua.
Il soggetto, scelto da lui o dai condomini riuniti in assemblea, ha il compito di eseguire determinate mansioni ad esso attribuite. Si tratta di una figura molto simile a quella del consiglio dei condomini e le cui mansioni sarebbero limitate all'oggetto specifico dei compiti assegnatigli dall'assemblea o dal regolamento. L'amministratore risponde delle eventuali responsabilità che possono derivare dal suo operato.

Il condominio Alfa è dotato di un regolamento di natura contrattuale che specifica, non proprio chiaramente, quali siano le cose che devono essere considerate di proprietà comune.

In considerazione di questa lacuna sorgono spesso contrasti in merito alla competenza dell’assemblea a prendere decisioni con riferimento alla conservazione d’un sottoscala. Non è chiaro, infatti, se questa parte dell’edificio debba essere considerata comune o di proprietà esclusiva di Tizio, titolare dell’appartamento Gamma. Sta di fatto che a seguito di alcune tensioni tra i comproprietari, la disputa sfocia in una causa. In entrambi i gradi di merito i giudici, sulla base dello stato degli atti, convengono che il sottoscala deve’essere considerato parte di proprietà comune: il sottoscala dev’essere considerato di proprietà comune e quindi l’assemblea del condominio ha tutto il diritto di decidere cosa è giusto. Il condomino, a quel punto, fa ricorso in Cassazione: il giudice d’appello ha mal interpretato il regolamento. Ebbene questo ricorso non sempre può essere considerato fondato: il motivo ruota tutto attorno a ciò che si chiede al giudice di legittimità.

Per spiegare meglio quest’ultima frase prendiamo a prestito un passaggio di una recente sentenza della Corte di Cassazione resa in materia d’interpretazione degli atti d’acquisto di edifici in condominio in relazione all’individuazione delle parti comuni; in sostanza un caso analogo a quello che abbiamo usato come esempio. Si legge nella sentenza che “ l'opera dell'interprete, infatti, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d'ermeneutica contrattuale posti dall'art. 1362 c.c., e segg., oltre che per vizi di motivazione nell'applicazione di essi; pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili, il ricorrente per cassazione deve, non solo, come già visto, fare esplicito riferimento alle regole legali d'interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti. Di conseguenza, ai fini dell'ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea - anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente - la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d'una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d'argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839,21.7.04 n. 13579, 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753)” (Cass. 20 febbraio 2012 n. 2412)

L'apposizione di una canna fumaria e della relativa struttura di copertura che immuta lo stato della cosa comune ed eccede i limiti segnati dalle concorrenti facoltà dei compossessori ex art. 1102 c.c., in particolare, l'analogo uso da parte di questi ultimi, risulta illegittima.
E' quanto riaffermato dalla Suprema Corte, con la sentenza resa in data 24.08.2015, n. 17072, la quale si rivela particolarmente interessante perché affronta diverse questioni relative al compossesso del bene comune.
La vicenda trae origine dall'installazione, su un muro comune, di una canna fumaria relativa ad un impianto di riscaldamento che, a dire di altri due condomini, alterava la facciata condominiale (corte interna) di un palazzo di pregio, nonché diminuiva la visibilità superiore della finestra del loro appartamento, siccome posta ad una distanza ridotta all'anzidetta apertura.
Rigettata in primo grado la domanda dei due condomini tesa alla rimozione della canna fumaria, in appello, la sentenza veniva completamente ribaltata, con la condanna al ripristino dello stato dei luoghi.
La controversia, quindi, veniva definitivamente risolta con la decisione della Suprema Corte, sopra richiamata, la quale confermava la sentenza di secondo grado.
Nel giudizio di legittimità, la società/condomina ricorrente rilevava, tra l'altro, la circostanza per la quale la corte di merito non aveva tenuto in alcuna considerazione la volontà della stessa di internare a proprie spese la canna fumaria, nonché il proprio diritto all'utilizzo del muro comune, anche per assolvere alla primaria funzione di riscaldare il proprio appartamento e, quindi, la violazione dell'art. 1102.
La Corte di Cassazione, nel ritenere i suddetti motivi infondati, evidenzia come la volontà di ripristinare lo stato dei luoghi, non esclude la turbativa nel possesso, possesso che peraltro prescinde dalla verifica sua legittimità.

Tanto è vero che, richiamando dei propri risalenti precedenti, afferma come: “... la doglianza di mancata valutazione della circostanza di essersi offerta di internare la canna fumaria, anche per la funzione primaria del riscaldamento rispetto alla utilizzazione dei locali di sua proprietà, trattandosi di elemento di giudizio che non vale ad escludere l'elemento psicologico della turbativa, al pari della necessità di riscaldare l'appartamento, in quanto nel giudizio possessorio assume rilievo esclusivo la situazione di fatto esistente al momento dello spoglio o della turbativa, rimanendo estranea ogni questione relativa alla legittimità del possesso e, in particolare, alla sua rispondenza ad un titolo legittimo (v. Cass. 3 febbraio 1998 n. 1040; Cass. 28 febbraio 1989 n. 1087; Cass. 21 maggio 1987 n. 4625)”.
Entrando nel merito la Suprema Corte osserva come, nel condominio degli edifici, per i beni comuni vige, in favore di tutti i condomini, un compossesso pro-indiviso.
L'esercizio dell'anzidetto compossesso può esercitarsi in due modi differenti, a seconda che il bene comune sia oggettivamente utile alle singole unità immobiliari cui è collegato materialmente o per funzione (suolo, fondazioni, muri maestri, oggettivamente utili per la statica) ovvero quando sia soggettivamente utile nel senso che la sua unione materiale o la destinazione funzionale ai piani o porzioni di piano dipende dall'attività dei rispettivi proprietari (portone, anditi, scale, ascensore ecc.).
Nel primo caso, il possesso viene esercitato con il beneficio che il piano o la porzione di piano trae da tale utilità, nel secondo caso, con l'esercizio della predetta attività da parte del proprietario.
Evenienze queste che danno esclusivo rilievo alle situazione di fatto, prescindendo dall'esistenza, o meno, di un legittimo titolo per l'esercizio del possesso.
“Ciò posto, il godimento delle cose comuni da parte dei singoli condomini assurge ad oggetto di tutela possessoria quando uno di loro abbia alterato e violato, senza il consenso degli altri condomini ed in loro pregiudizio, lo stato di fatto o la destinazione della cosa oggetto del comune possesso, in modo da impedire o da restringere il godimento spettante a ciascun compossessore pro indiviso sulla cosa medesima (Cass. 26 gennaio 2000 n. 855; Cass. 11 marzo 1993 n. 2947; Cass. 21 luglio 1988 n. 4733; Cass. 18 luglio 1984 n. 4195). La modifica di una parte comune e della sua destinazione ad opera di taluno dei condomini, sottraendo la cosa alla sua specifica funzione e quindi al compossesso di tutti i condomini, legittima di conseguenza gli altri condomini all'esperimento dell'azione di reintegrazione per conseguire la riduzione della cosa al pristino stato in modo che essa possa continuare a fornire quella utilitas alla quale era asservita anteriormente alla contestata modificazione, senza che sia necessaria la specifica prova del possesso di detta parte quando risulti che essa consista in una porzione immobiliare in cui l'edificio si articola (Cass. 13 luglio 1993 n. 7691)”.
Nel caso concreto si è accertato, con apprezzamento non censurabile in cassazione, che la canna fumaria aveva dimensioni non trascurabili, allocata in una sovrastruttura apposta nella facciata del palazzo condominiale priva di qualsiasi pregio architettonico o funzionale in relazione alla parete esterna dell'edificio, motivo per il quale alterava notevolmente l'estetica dell'edificio, quand'anche bisognevole di manutenzione; peraltro, era stato anche accertato che l'ingombro della struttura provocava ombra sulla finestra dell'appartamento diminuendone, pertanto, la luminosità.
Conclude, pertanto, la Suprema Corte affermando come: “… l'uso particolare che il comproprietario faccia del bene comune non può considerarsi estraneo alla destinazione normale dell'area, a condizione però che si verifichi in concreto che, per le dimensioni del manufatto o per altre eventuali ragioni di fatto, tale uso non alteri l'utilizzazione del cortile praticata dagli altri comproprietari, né escluda per gli stessi la possibilità di fare del bene medesimo un analogo uso particolare (cfr. Cass. 20 agosto 2002 n. 12262; Cass. 17 maggio 1997 n. 4394). La sentenza impugnata da conto proprio della inesistenza di tale condizione ed in particolare della alterazione della destinazione naturale dell'area occupata con la struttura contenente la canna fumaria e per tale ragione ha ritenuto commettere molestia la società che aveva immutato lo stato di fatto degradando gravemente l'estetica dell'edificio ed alterando precedenti facoltà di utilizzazione da parte degli altri condomini, in particolare dei resistenti. Del resto le denotate modalità (obiettive) dell'aggressione possessoria disvelavano, a chiare note, la sussistenza, in capo alla ricorrente del c.d. animus turbandi il quale, come è dato ormai acquisito, consiste nella volontarietà del fatto compiuto a detrimento dell'altrui possesso, contro il divieto espresso anche solo presunto del possessore e si profila, in linea di massima, tutte le volte che in concreto si colgono gli estremi della turbativa, rendendosi normalmente irrilevante l'eventuale convinzione dell'autore di questa di esercitare propri diritti (cfr Cass. n. 8829 del 1997; Cass. n. 22414 del 2004). Né risultano dimostrati nella specie gli argomenti esposti, quali l'impossibilità di una diversa collocazione della canna fumaria, oltre alla necessità ed urgenza di detta collocazione”.
Pertanto, la lesione del decoro architettonico nonché la diminuzione della luminosità dell'appartamento dei resistenti, impongono la rimozione della canna fumaria.


Fonte http://www.condominioweb.com/la-canna-fumaria-va-rimossa-se-altera-lestetica.12068#ixzz3mMW1r9QA
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Il primo comma dell'art. 1138 c.c. specifica che:

" Quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale contenga le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione".

In dottrina e giurisprudenza si è soliti distinguere tra due tipologie di regolamento:

a) quello assembleare, che viene approvato dall'assise con le stesse maggioranze previste per la nomina dell'amministratore (voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all'assemblea e almeno 500 millesimi);:

b) quello contrattuale, che deve essere approvato da tutti i condomini.

Nel primo caso il contenuto dev'essere conforme a quanto stabilito dal primo comma dell'art. 1138 c.c.; nella seconda ipotesi le parti possono prevedere limitazioni agli usi delle parti di proprietà comune ed esclusiva.

Ma che cos'è esattamente il regolamento?

Secondo la dottrina " il regolamento di condominio, quali ne siano l'origine ed il procedimento di formazione (accettazione da parte dei singoli acquirenti delle unità immobiliari condominiali del regolamento predisposto dall'originario unico proprietario dell'intero edificio oppure deliberazione dell'assemblea dei condomini votata con la maggioranza di cui all'art. 1136, secondo comma, c.c.), si configura, in relazione alla sua specifica funzione di costituire una sorta di statuto convenzionale del condominio, che ne disciplina la vita e l'attività come ente di gestione (ferma l'inderogabilità di alcune norma concernenti specifici aspetti della disciplina legislativa), come atto volto ad incidere su di un "rapporto plurisoggettivo" concettualmente unico con un complesso di regole giuridicamente vincolanti per tutti i condomini" (Scorzelli, Il regolamento di condominio, Fag,2007). Sulla stessa lunghezza d'onda la Corte di Cassazione (cfr. Cass. 29 novembre 1995 n. 12342).

In questo contesto vale la pena soffermarsi sulla possibilità, per il regolamento, d'infiggere sanzioni pecuniarie.

Ai sensi dell'art. 70 disp. att. c.c. " Per le infrazioni al regolamento di condominio può essere stabilito, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino a lire cento. La somma è devoluta al fondo di cui l'amministratore dispone per le spese ordinarie".

Nel corso degli anni questa norma non è mai stata aggiornata sicché la sanzione massima oggi applicabile è pari a 5 cents/euro. Ciò detto è bene evidenziare un aspetto non secondario: per sanzioni pecuniarie non bisogna intendere solamente quelle che prevedono una multa per un comportamento scorretto ma anche quelle che surrettiziamente impongono l'addebito di costi per altro genere di "punizione" si pensi, su tutte, alla rimozione del veicolo con annesso addebito dei costi per l'intervento del carro attrezzi.

Sorvolando sull'illegittimità d'un simile dispositivo (in assenza di situazione d'urgenza né l'amministratore, né l'assemblea possono incidere su beni di proprietà esclusiva), vale la pena evidenziare che l'addebito del costo rappresenterebbe una sanzione indiretta. Esso in sostanza potrebbe essere contestato così come potrebbe essere impugnata la deliberazione che lo sancisce.

Fonte http://www.condominioweb.com/possibilita-per-il-regolamento-dinfiggere-sanzioni-pecuniarie.929#ixzz3mMct6DUT
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In tema di ripartizione delle spese per la manutenzione degli spazi comuni ai box auto di proprietà esclusiva, se il regolamento condominiale riserva la proprietà di questi spazi ai titolare di posti auto, i costi necessari per gli interventi conservativi devono essere suddivisi solamente tra di essi.
Questa, in sintesi, il cuore della sentenza n. 17268 resa dalla Corte di Cassazione il 28 agosto 2015.
La titolarità della spesa per gli spazi comuni ai box ai titolari di questi ultimi, chiosa la Cassazione, comporta la nullità della delibera assembleare che a maggioranza abbia derogato ai suddetti criteri previsti da un regolamento contrattuale.
Il caso che ha portato alla pronuncia della sentenza in esame è di quelli ricorrenti. Un condominio chiede ed ottiene un decreto ingiuntivo di pagamento contro uno dei condòmini per il mancato pagamento degli oneri condominiali. Il condomino ingiunto non ci sta e propone opposizione: a suo modo di vedere alcune di quelle spese non sono dovute.
Quali sono i requisiti per l'emissione di un decreto ingiuntivo?
In particolare per l'opponente (è questo in gergo tecnico il nome che identifica chi si oppone ad un decreto ingiuntivo) lamenta l'imputazione di alcune spese riguardanti la manutenzione delle corsie di manovra dei box. A suo modo di vedere rispetto a quell'intervento manutentivo a lui non è possibile domandare alcunché in quanto dal regolamento condominiale si evince chiaramente che le spese per quelle parti dell'edificio devono essere suddivise solamente tra i proprietari dei box auto e lui tale non è.
Il Giudice di Pace, in primo grado, ed il Tribunale, in funzione di giudice d'appello, gli danno ragione: il proprietario di un appartamento che non sia anche titolare di un box auto, in quel condominio non deve pagare le spese di manutenzione degli spazi manovra perché il regolamento condominiale lo esclude. Da qui il ricorso in Cassazione.
Per gli ermellini la pronuncia impugnata (la sentenza del Tribunale) era da confermarsi. Motivo? Si legge in sentenza che era evidente come le norme del regolamento condominiale non prevedessero “espressamente la partecipazione di condomini che non sono proprietari di box (e/o autorimesse) alle spese di ordinaria o straordinaria manutenzione degli spazi di manovra ed accesso relativi a tali unità immobiliari di proprietà soltanto di taluni condomini" (Cass. 28 agosto 2015 n. 17268).
In questo contesto, afferma la Cassazione, “le delibere relative alla ripartizione delle spese sono nulle, se l'assemblea, esulando dalle proprie attribuzioni, modifica i criteri stabiliti dalla legge o, in via convenzionale, da tutti i condomini” e tali nullità può essere fatta valere in ogni tempo senza per forza ricorrere alle modalità d'impugnazione previste dall'art. 1137 c.c. e quindi anche nel corso del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Resta una domanda di carattere generale. Le spese di manutenzione degli spazi di manovra dei box auto sono solamente a carico dei proprietari degli spazi di sosta anche in assenza di una specifica norma contenuta in un regolamento condominiale?
Al riguardo non esiste una risposta univoca e molto dipende dalla conformazione dell'edificio e dalla parte oggetto dell'intervento conservativo. In buona sostanza se il parcheggio è interrato ed è un tutt'uno con l'edificio, i proprietari di unità immobiliari non titolari di box dovranno partecipare alle spese che riguardano parti comuni a tutti l'edificio (es. muri portanti), restando a carico dei proprietari dei posti auto le spese per quelle parti di edificio che hanno esclusiva utilità per loro.

Se il regolamento condominiale vieta di mutare la destinazione d’uso delle unità immobiliari da uso abitativo ad uso commerciale, o quanto meno a determinati usi non abitativi, deve ritenersi lecita l’attività di affittacamere esercitata da uno dei condomini.

Questa, in estrema sintesi, la conclusione cui è giunta la Corte d’appello di Roma con la sentenza n. 6390 del 19 dicembre 2012.

Naturalmente si parla di regolamenti contrattuali poiché, com’è noto, quelli assembleari non possono incidere sui diritti dei singoli sulle parti comuni o su quelle individuali.

In buona sostanza, secondo il giudice che ha emesso la sentenza, poiché l’attività di affittacamere consente di lasciare invariata la destinazione d’uso a civile abitazione, essa può essere svolta tranquillamente.

Il Tribunale, nel giudizio di primo grado, era arrivato a tutt’altra conclusione ossia aveva intimato la sospensione dell’attività di affittacamere.

La Corte d’appello ha ribaltato quella decisione.

Si legge nella sentenza n. 6390 che la decisione del giudice di prime cure “non può essere condivisa innanzitutto perché non autorizzata dalla lettera della norma contrattuale che si limita a far riferimento alla formale destinazione d'uso delle unità immobiliari e poi nemmeno da una interpretazione logica e/o sistematica dell'art. (…) del regolamento condominiale che sarebbe da un lato inammissibile, perché non può essere consentita alcuna limitazione del diritto di proprietà dei singoli condomini se non in forza di espressa previsione ed analitica specificazione dei limiti che si intendono porre, e dall'altro in contrasto con la lettura della norma costantemente data dai condomini nella sua concreta e costante applicazione.

Infatti, si continua a leggere nella sentenza, Basta osservare che è stata pacificamente consentita nelle unità immobiliari del complesso condominiale, tra le altre, l'attività di una scuola, quella di altra attività para-alberghiera, la presenza di attività commerciali o di agenzie di assicurazione e tollerata per circa cinque anni la stessa attività dell'odierna appellante (…), attività tutte, ad eccezione di quella di affittacamere, riferite un uso diverso da quello consentito dall'art. 6 del regolamento condominiale e che comportano l'assidua frequentazione dello stabile condominiale da parte di terzi estranei, con le ovvie conseguenze anche in relazione all'uso dei beni comuni, ascensore compreso.

Ne discende che l'attività di affittacamere esercitata dalle odierne appellanti nelle loro unità immobiliari, avendo mantenuto la destinazione d'uso per civile abitazione, è formalmente rispettosa dell'art. (…) del regolamento condominiale e che la stessa è del tutto ammissibile anche e soprattutto alla luce della concreta interpretazione ed applicazione della norma regolamentare costantemente data dagli altri condomini, in nulla aggravando in termini di maggior uso delle cose comuni e/o della sicurezza del contesto condominiale la situazione già da tempo determinatasi col pieno assenso di tutti gli aventi diritto” (Corte appello Roma 19 dicembre 2012 n. 6390).
Insomma se non è chiaramente vietata, l’attività di affittacamere non può essere interdetta.

Fonte http://www.condominioweb.com/quando-e-lecita-lattivita-di-affittacamere-in-condominio.1286#ixzz3mMbjPDgI
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Il regolamento condominiale non ha natura contrattuale di per sé, ma solo in relazione a quelle clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni, ovvero attribuenti ad alcuni condomini maggiori diritti rispetto a quelli degli altri, e non invece, in relazione a quelle clausole che si limitano semplicemente a disciplinare l’uso e la manutenzione dei beni comuni; e solo per la modifica delle clausole aventi natura contrattuale è richiesta l’unanimità dei consensi, ferma restando, in ogni caso, la necessità della forma scritta a pena di nullità.

I proprietari dei locali al piano-cantine, adibiti a box o negozi, non sono tenuti al pagamento delle spese di riscaldamento se non usufruiscono della caldaia comune.
Lo ha stabilito la sentenza n. 636 del 23 febbraio 2015 del Tribunale di Genova, secondo cui la delibera con la quale l'assemblea di condominio ripartisce gli oneri anche a carico dei locali che non sono serviti dall'impianto di riscaldamento comune è nulla (non semplicemente annullabile) e, di conseguenza, è sempre impugnabile senza limiti di tempo.
Nel caso di specie, il giudice ligure ha accolto l'impugnazione presentata dai proprietari di varie unità immobiliari situate nel piano fondi dell'edificio condominiale (adibite a box e negozi) contro la delibera con la quale l'assemblea aveva deciso la messa a norma della caldaia, con ripartizione delle spese anche a carico di essi attori, nonostante i propri immobili non usufruissero del riscaldamento comune.


Il condominio si era difeso eccependo tra l'altro la tardività dell'impugnazione, proposta oltre il termine di 30 giorni previsto dall'art. 1137 c.c. Ma il tribunale ha respinto tale eccezione, posto che, nel caso in esame, la delibera impugnata deve ritenersi affetta da nullità e non semplicemente annullabile, in quanto non attiene alla ripartizione delle spese, ma piuttosto al fatto che le unità immobiliari degli attori non usufruiscono del servizio di riscaldamento comune a cui le spese di riferiscono.
=> Magazzino non riscaldato perché il proprietario deve pagare ugualmente le spese?
La sentenza in commento aderisce ad un recente orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui: “in tema di condominio negli edifici, è nulla - e non soggetta, quindi, al termine di impugnazione di cui all'art. 1137 cod. civ. - la delibera assembleare che addebiti le spese di riscaldamento ai condomini proprietari di locali (nella specie, sottotetti), cui non sia comune, né siano serviti dall'impianto di riscaldamento, trattandosi di delibera che inerisce ai diritti individuali di tali condomini e non alla mera determinazione quantitativa del riparto delle spese” (Cass. civ., 3/10/2013 n. 22634).
Nel caso specifico, peraltro, è lo stesso regolamento di condominio a stabilire che il locale caldaia dove ritenersi di proprietà comune dei soli condomini titolari dei 51 appartamenti, con esclusione dunque degli immobili aventi diversa destinazione.
Dunque, la delibera è annullabile se l'oggetto della contestazione riguarda i criteri utilizzati per ripartire le spese condominiali; diversamente, la delibera è nulla se si discute della proprietà delle parti comuni a cui si riferiscono le spese da ripartire. Si tratta di una distinzione di non poco conto, nel primo caso, la deliberazione può essere impugnata innanzi al giudice competente entro il termine di 30 giorno previsto dall'art. 1137 c.c. e solo dai condomini assenti, dissenzienti o astenuti, mentre nel secondo caso la delibera potrà essere sempre impugnata in ogni tempo e da tutti i condomini interessati.


Fonte http://www.condominioweb.com/spese-condominiali-cantine-adibite-a-box-negozi.12075#ixzz3mMWGUb6t
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Il codice civile disciplina il regolamento di condominio limitandosi a chiarire quale deve essere il suo contenuto e quali devono essere i quorum deliberativi per adottarlo. Al di là degli aspetti contenutistici dottrina e giurisprudenza sono solite affermare che “ il regolamento di condominio, quali ne siano l’origine ed il procedimento di formazione (accettazione da parte dei singoli acquirenti delle unità immobiliari condominiali del regolamento predisposto dall’originario unico proprietario dell’intero edificio oppure deliberazione dell’assemblea dei condomini votata con la maggioranza di cui all’art. 1136, secondo comma, c.c.), si configura, in relazione alla sua specifica funzione di costituire una sorta di statuto convenzionale del condominio, che ne disciplina la vita e l’attività come ente di gestione (ferma l’inderogabilità di alcune norma concernenti specifici aspetti della disciplina legislativa), come atto volto ad incidere su di un “rapporto plurisoggettivo” concettualmente unico con un complesso di regole giuridicamente vincolanti per tutti i condomini” (Scorzelli, Il regolamento di condominio, Fag,2007; conf. Cass. 29 novembre 1995 n. 12342).

Ciò detto è sempre bene ricordare che lo statuto della compagine può avere origine assembleare, se è approvato dall’assise, o contrattuale, se sottoscritto da tutti i condomini. Al di là dell’origine è ben possibile che il contenuto sia identico. Sul punto, a partire dal 1999 (anno di pronuncia della sent. n. 943 delle Sezioni Unite), la Cassazione è unanime nell’affermare che “ le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall'originario proprietario dell'edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonchè quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l'uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare; ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall'unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall'art. 1136 c.c., comma 2” (Cass. 15 giugno 2012 n. 9877).

Un esempio chiarirà la portata di questi principi.

S’ipotizzi che il condominio Alfa sia dotato di regolamento contrattuale nel quale è stabilito che l’assemblea dev’essere convocata inviando il relativo avviso non meno di dieci giorni prima della data fissata per la prima convocazione. Con il passare del tempo i condomini si rendono conto dell’eccessiva lunghezza di tale termine e decidono di porvi rimedio modificandolo. La clausola è contenuta in un regolamento contrattuale ma ha chiaramente natura assembleare. Ergo: l’assemblea potrà modificarla con le stesse maggioranze previste per l’approvazione e la revisione del regolamento assembleare.

Fonte http://www.condominioweb.com/non-sempre-il-regolamento-contrattuale-contiene-clausole-di-natura-contrattuale-come-eseguire.1065#ixzz3mMcINK9g
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Il codice civile disciplina il regolamento di condominio limitandosi a chiarire quale deve essere il suo contenuto e quali devono essere i quorum deliberativi per adottarlo. Al di là degli aspetti contenutistici dottrina e giurisprudenza sono solite affermare che “ il regolamento di condominio, quali ne siano l’origine ed il procedimento di formazione (accettazione da parte dei singoli acquirenti delle unità immobiliari condominiali del regolamento predisposto dall’originario unico proprietario dell’intero edificio oppure deliberazione dell’assemblea dei condomini votata con la maggioranza di cui all’art. 1136, secondo comma, c.c.), si configura, in relazione alla sua specifica funzione di costituire una sorta di statuto convenzionale del condominio, che ne disciplina la vita e l’attività come ente di gestione (ferma l’inderogabilità di alcune norma concernenti specifici aspetti della disciplina legislativa), come atto volto ad incidere su di un “rapporto plurisoggettivo” concettualmente unico con un complesso di regole giuridicamente vincolanti per tutti i condomini” (Scorzelli, Il regolamento di condominio, Fag,2007; conf. Cass. 29 novembre 1995 n. 12342).

Ciò detto è sempre bene ricordare che lo statuto della compagine può avere origine assembleare, se è approvato dall’assise, o contrattuale, se sottoscritto da tutti i condomini. Al di là dell’origine è ben possibile che il contenuto sia identico. Sul punto, a partire dal 1999 (anno di pronuncia della sent. n. 943 delle Sezioni Unite), la Cassazione è unanime nell’affermare che “ le clausole dei regolamenti condominiali predisposti dall'originario proprietario dell'edificio condominiale ed allegati ai contratti di acquisto delle singole unità immobiliari, nonchè quelle dei regolamenti condominiali formati con il consenso unanime di tutti i condomini, hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l'uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare; ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall'unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall'art. 1136 c.c., comma 2” (Cass. 15 giugno 2012 n. 9877).

Un esempio chiarirà la portata di questi principi.

S’ipotizzi che il condominio Alfa sia dotato di regolamento contrattuale nel quale è stabilito che l’assemblea dev’essere convocata inviando il relativo avviso non meno di dieci giorni prima della data fissata per la prima convocazione. Con il passare del tempo i condomini si rendono conto dell’eccessiva lunghezza di tale termine e decidono di porvi rimedio modificandolo. La clausola è contenuta in un regolamento contrattuale ma ha chiaramente natura assembleare. Ergo: l’assemblea potrà modificarla con le stesse maggioranze previste per l’approvazione e la revisione del regolamento assembleare.

La presenza, nel regolamento contrattuale di un supercondominio, del divieto di apportare modifiche strutturali, funzionali ed estetiche alle proprietà individuali rende superfluo, allorché si lamenti la sua violazione, l'esame giudiziale circa il rispetto, o meno, del decoro architettonico dell'intero complesso immobiliare, e la sua trasgressione importa in sè il diritto al risarcimento del danno.
Il caso. Tizio conveniva in giudizio Caio al fine di chiedere la riduzione in pristino stato dello stabile condominiale in seguito agli interventi eseguiti al piano quarto del fabbricato e al sottotetto, in quanto lamentava la violazione del regolamento condominiale. Chiedeva, altresì, che venisse confermata l'ordinanza cautelare emessa dal medesimo Tribunale precedentemente, con la quale era stata ordinato a Caio l'esecuzione di interventi strutturali e di rinforzo del solaio.
Caio si costituiva ritualmente in giudizio, resistendo alla domanda dell'attore e chiedendo, altresì, la revoca dell'ordinanza cautelare.
Frattanto, con atto di intervento adesivo alle domande attrici, si costituiva in giudizio Sempronio (altro vicino d'appartamento), il quale chiedeva, altresì, la condanna di Caio al ripristino dei locali di sua esclusiva proprietà, alla rimozione dei contatori ed apparati elettrici collocati nella cantina di oltre al risarcimento dei danni a causa delle lesioni apparse nel suo immobile, dopo l'esecuzione delle opere predette.
La causa veniva istruita attraverso Consulenza Tecnica d'Ufficio (d'ora in avanti CTU) volta ad accertare, da un lato, la natura delle opere eseguite da Caio (in particolare, se esse abbiano integrato una sopraelevazione, ovvero una alterazione del decoro architettonico dello stabile condominiale, ovvero una alterazione della simmetria dell'immobile), dall'altro, se i danni lamentati da Sempronio siano conseguenza degli interventi dallo eseguiti da Caio.
Le risultanze della CTU e il contenuto del Regolamento. Il perito del tribunale, al riguardo, ha accertato che le opere de quibus hanno realizzato una sopraelevazione alterando la simmetria dell'edificio; lo stesso ha poi rilevato che tali opere si ponevano in contrasto con le previsioni regolamentari, laddove stabilivano il divieto di apportare a ciascun immobile del fabbricato modifiche in grado di pregiudicare la solidità, la simmetria, l'estetica e l'igiene, se non dietro autorizzazione preventiva da parte dell'assemblea condominiale. Dall'altra parte,il tecnico del tribunale ha rilevato come plausibile e degna di nota la circostanza che i lavori svolti al piano superiore da Caio siano all'origine delle fessure osservate nell'appartamento sottostante di Sempronio.
La Sentenza. Tanto è bastato al decidente per condannare Caio alla riduzione in ripristino del proprio immobile e al risarcimento del danno in favore di Sempronio.
Richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali (Cass., 13 giugno 2013, n. 14898), il Giudice de quo ha qualificato complementi costitutivi di servitù reciproche i patti limitativi contenuti in regolamenti accettati dalle parti.
Sotto tale profilo, il contratto condominiale accettato dai singoli acquirenti nei rispettivi atti di acquisto è ben in grado di prevedere tali limiti alla proprietà privata. In particolare: "il regolamento di un supercondominio predisposto dall'originario unico proprietario del complesso di edifici, accettato dagli acquirenti net singoli atti di acquisto e trascritto nei registri immobiliari, in virtù del suo carattere convenzionale, vincola i successivi acquirenti senza limiti di tempo, non solo relativamente alle clausole che disciplinano l'uso ed il godimento dei servizi e delle parti comuni, ma anche per quelle che restringono i poteri e le facoltà sulle loro proprietà esclusive, venendo a costituire su queste ultime una servitù reciproca”.
Conclusione. Le clausole del regolamento condominiale di natura contrattuale possono imporre limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà, purché siano enunciate in modo chiaro ed esplicito.
In particolare, tali norme risultano sempre vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione del documento in conservatoria dei registri immobiliari, nell'atto di acquisto se ne faccia esplicito riferimento.
Nel qual caso (come visto sopra), la giurisprudenza è costante nel ritenere che - seppure il regolamento non sia inserito materialmente nel rogito stesso deve ritenersi conosciuto o accettato in base al mero richiamo o alla menzione di esso nel contratto (Cass., 3 luglio 2003, n. 10523).


Fonte http://www.condominioweb.com/supercondominio-un-condomino-realizza-delle-opere-in-violazione-del-regolamento.11438#ixzz3mMXiZHyB
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Il II comma dell'art.63 delle disposizione per l'attuazione del C.C prevede espressamente che "chi subentra nei diritti di un condomino (ad esempio nuovo proprietario) è obbligato in solido con quest'ultimo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente."
L' amministratore quindi potrà agire in giudizio sia in danno del vecchio che del nuovo proprietario, essendo entrambi obbligati in solido, per il recupero degli oneri condominiali scaduti e non pagati.
L'ultimo comma riconosce all'amministratore di condominio un ulteriore potere, nei confronti del condomino moroso, ossia quello di sospendere l'utilizzazione dei servizi comuni (acqua e riscaldamento) se il regolamento di condominio ne contiene l'autorizzazione.

La questione del diritto a prendere visione della documentazione condominiale non è soggetta a limitazioni di tempo differenti da quelle relative all'obbligo dell'amministratore di conservare la suddetta documentazione.
Vediamo il perché di questa risposta e di conseguenza se il mandatario della compagine ha diritto a chiedere un compenso per questa prestazione.
In primis è bene operare una distinzione tra:
a) registri condominiali di cui all'artt. 1130 nn 6 e 7 c.c.;
b) documentazione giustificativa delle spese sulla quale si fonda il rendiconto.
Ecco cosa succede se l'amministratore nega l'accesso alla documentazione condominiale
Rispetto ai registri condominiali la legge è chiara e all'art. 1129, secondo comma, c.c. prevede che l'amministratore, all'atto dell'accettazione dell'incarico e ad ogni suo rinnovo, debba indicare ai condòmini “i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta all'amministratore, può prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia da lui firmata”.
È utile ricordare che tali registri sono:
a) il registro di anagrafe condominiale;
b) il registro di nomina e revoca dell'amministratore;
c) il registro dei verbali (con allegato regolamento di condominio, ove esistente);
d) il registro di contabilità.
Rispetto a questi registri la legge non prevede alcuna limitazione temporale di conservazione, quindi se ne deve dedurre che gli stessi debbano essere sempre conservati, senza possibilità di disfarsene.
Passiamo adesso alla documentazione giustificativa del rendiconto o comunque delle spese, cioè alle così dette pezze giustificative.
Ai sensi dell'art. 1130-bis, primo comma, c.c.:
“[…]. I condomini e i titolari di diritti reali o di godimento sulle unità immobiliari possono prendere visione dei documenti giustificativi di spesa in ogni tempo ed estrarne copia a proprie spese. Le scritture e i documenti giustificativi devono essere conservati per dieci anni dalla data della relativa registrazione”.
Da non perdere=> L'amministratore che rifiuta di consegnare i documenti paga le spese del giudizio
Diritto di prendere visione in ogni tempo: quindi nessuna limitazione rispetto a documenti inerenti rendicontazioni già approvate.
Esempio: l'assemblea del condominio Alfa ha approvato nel 2014 la rendicontazione dell'anno di gestione 1/1/2013 – 31/12/2013. Tizio nel 2015 ha diritto di prendere visione ed estrarre copia delle così dette pezze giustificative di quell'anno. Così come degli anni precedenti. Unico limite temporale sono i dieci anni rispetto ai quali vige l'obbligo di conservazione della documentazione giustificativa. Questi dieci anni si contano dalla data di registrazione (nel registro di contabilità) e comunque al loro trascorrere non accede il divieto di chiedere copia, ma solamente la possibilità per l'amministratore di disfarsene. Come dire: se l'amministratore conserva documenti di 11 anni prima, il solo passaggio di 10 anni non lo esime dall'obbligo di darne visione (ed eventualmente copia) al condomino interessato.
È bene ricordare, infatti, che le rendicontazioni possono essere sempre sottoposte a revisione, ad esempio ai sensi dello stesso art. 1130-bis c.c., e che comunque se un condòmino intravede in una deliberazione di approvazione del rendiconto una causa di nullità, egli ha sempre diritto ad impugnarla (art. 1421 c.c.).
Passiamo, infine, alla questione compenso. La legge specifica che il condomino deve sempre pagare il costo delle copie richieste. Tale riferimento, ad avviso di chi scrive, dev'essere circoscritto ai costi vivi per l'estrazione della copia. Uno specifico compenso, invece, può essere richiesto solamente se comunicato al momento dell'accettazione dell'incarico o del suo rinnovo (art. 1129, quattordicesimo comma, c.c.).


Fonte http://www.condominioweb.com/documentazione-condominiale-giustificativa-di-rendiconti-approvati-legittimo-chiedere-copie.12081#ixzz3mMT2JEiX
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Il condominio, ad affermarlo è la giurisprudenza, sorge per solo fatto che l'originario unico proprietario (ad esempio il costruttore) cede la prima unità immobiliare ad un'altra persona. In questo momento, ricordano le sentenze, si crea quella relazione di accessorietà tra le parti comuni (scale, impianti, ecc.) e le unità immobiliari di proprietà esclusiva che è presupposto da solo sufficiente all'operatività delle norme di cui agli artt. 1117 e ss. c.c. (cfr. tra le tante Cass. 17 agosto 2011, n. 17332).
D'altra parte, sono state le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a stabilirlo (sent. n. 2046/06) le norme sul condominio negli edifici si applicano anche al così detto condominio minimo, ossia a quella compagine composta da due soli proprietari di unità immobiliari.
=> Il caso delle spese urgenti ex art. 1134 c.c. e la risposta delle Sezioni Unite della Cassazione.
In buona sostanza il primo documento sulla base del quale possa dirsi costituito un condominio è il primo atto di compravendita stipulato tra l'originario unico proprietario dell'edificio e il suo primo avente causa.
In esso possono essere contenute, diversamente dagli successivi atti, tutte le disposizioni concernenti la proprietà delle parti comuni dell'edificio. Chiaramente se tali disposizioni sono riportate in un regolamento condominiale contrattuale esso potrà essere allegato a tutti gli altri atti di compravendita: diversamente questi non potranno far altro che rimandare al primo atto o comunque inglobarne le disposizioni sulle parti comuni. Tale ultima soluzione (con generico rimando alle parti comuni previste dalla legge) è quella più utilizzata, ma non per forza l'unica soluzione possibile.
Con il primo atto d'acquisto è possibile recarsi all'agenzia delle entrate per chiedere l'attribuzione del codice fiscale del condominio (adempimento obbligatorio per legge, cfr. d.p.r. n. 605/73).
=> Variazione del codice fiscale del condominio
I successivi eventuali adempimenti, si pensi alla nomina dell'amministratore, alla eventuale redazione di regolamento (ove obbligatorio e non predisposto) e tabelle (ove non redatte) ecc. ecc. rappresentano elementi incidentali della gestione che nulla hanno a che vedere con la costituzione del condominio.
Il primo verbale di assemblea, nel quale vengono spesso utilizzate formule sacramentali atte a mettere in evidenza la costituzione del condominio, non ha alcuna valenza giuridica rispetto alla nascita della compagine.
L'unico documento fondamentale ai fini della costituzione del condominio è rappresentato dal primo atto di compravendita delle unità immobiliari.

Nel condominio in cui vivo, una norma del regolamento specifica che l'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale debba essere inviato ai condòmini almeno sette giorni prima della data fissata per la prima convocazione.
Siccome la maggior parte dei condòmini vive fuori città, allungare questo termine sarebbe utile per tutti: come fare?
Nel condominio in cui sono proprietario di un'unità immobiliare, una norma del regolamento specifica che l'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale debba essere inviato ai condòmini almeno cinque giorni prima della data fissata per la prima convocazione, mi sa proprio come dice la legge.
Da quando è entrata in vigore la riforma, tutti noi condòmini ci siamo dotati di casella di posta elettronica certificata e riceviamo in questo modo avvisi dell'amministratore a quell'indirizzo. Cinque giorni, quindi, ci sembrano esagerati, nei casi urgenti: possiamo ridurre il termine?
Si tratta di due ipotesi nelle quali risulterebbe utile la variazione (tecnicamente revisione) del regolamento condominiale; eppure solamente nella primo caso portato ad esempio è possibile addivenirvi. Vediamo perché.
Revisione del regolamento condominiale
Partiamo dal potere d'iniziativa per la revisione del regolamento. Il secondo comma dell'art. 1138 c.c. specifica che:
Ciascun condomino può prendere l'iniziativa per la formazione del regolamento di condominio o per la revisione di quello esistente.
Questa iniziativa può consistere;
a) nella semplice richiesta all'amministratore di convocazione dell'assemblea;
b) nella richiesta di convocazione con contestuale proposizione della specifica modifica da apportare allo “statuto” vigente.
A ben vedere oltre che d'iniziativa dei condòmini, il regolamento può essere variato anche su iniziativa dell'amministratore; a questo, infatti, spetta il potere/dovere di curare l'osservanza del regolamento e di fare in modo che a tutti i condòmini sia garantire la migliore fruizione dei servizi comuni. Per fare ciò nel migliore dei modi potrebbe essere utile modificare il regolamento, ad esempio prevedendo delle sanzioni o modificando una norma mal scritta, ecc. La distinzione delle clausole del regolamento contrattuale
In ogni caso per la revisione del regolamento è necessario che si adotti la forma scritta (cfr. Cass. SS.UU. 30 dicembre 1999 n. 943) ed è indispensabile, come minimo, il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all'assemblea ed almeno la metà del valore millesimale dell'edificio (cfr. art. 1138 c.c.).
S'è detto in principio che dei due esempi riportati solamente nel primo caso si potrà modificare il termine intercorrente tra comunicazione dell'avviso di convocazione e prima data dell'assemblea.
Il motivo va rintracciato nella diversa natura della modificazione.
Nel primo caso, infatti, aumentare il tempo minimo previsto dalla legge (cinque giorni art. 66, terzo comma, disp. att. c.c.) è operazione considerata modificativa ma non derogatoria di una norma inderogabile ai sensi dell'art. 72 disp. att. c.c. Come dire: siccome la si migliora è possibile modificarla.
Nella seconda ipotesi, invece, la diminuzione dei giorni liberi tra comunicazione dell'avviso e prima convocazione sarebbe considerato intervento derogatorio e ciò non sarebbe possibile per i motivi spiegati sul finire del precedente periodo.


Fonte http://www.condominioweb.com/la-revisione-del-regolamento-di-condominio.11604#ixzz3mMXEHwAb
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L'assemblea di condominio può deliberare (all'unanimità) l' introduzione di sanzioni pecuniarie a carico di chi viola il Regolamento. L'importo della sanzione non può superare quanto previsto dalle Disposizioni di Attuazione del Codice Civile essendo l'art. 70 inderogabile (Art. 70. - Per le infrazioni al regolamento di condominio può essere stabilito, a titolo di sanzione, il pagamento di una somma fino ad euro 200 e, in caso di recidiva, fino ad euro 800. La somma è devoluta al fondo di cui l'amministratore dispone per le spese ordinarie). L'esecuzione è compito dell'Amministratore.
L'Amministratore ha facoltà di irrogare sanzioni pecuniarie ai condòmini che non rispettano il Regolamento, senza previa delibera dell'assemblea (art. 1131), quando il Regolamento lo preveda espressamente (art. 70). Si tratta di una particolare forma di “risarcimento del danno” che scaturisce a seguito di un inadempimento di obblighi assunti nei riguardi di un determinato uso dei beni comuni. Tali sanzioni possono essere applicate solo nei confronti dei condomini. L'amministratore è obbligato a irrorarle, secondo un'interpretazione per la quale è tenuto (art. 1130) a "curare l’osservanza del regolamento del condominio al fine di tutelare l’interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all’abitabilità dell’edificio" (Cassazione, sentenza n. 14735 del 26 giugno 2006), e soprattutto a "riscuotere i contributi […] per la manutenzione ordinaria delle parti comuni e per l'esercizio dei servizi comuni" (art. 1131, comma 3). La riscossione è quindi responsabilità dell'amministratore, il sollecito scritto o telefonico non è obbligatorio prima dell'ingiunzione di pagamento. Compete all'Amministratore la scelta di affidare a un avvocato il compito dell'ingiunzione dei pagamenti.
In base all'art. 63, "Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore può ottenere decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione".
Quindi, l'Amministratore può ottenere dal giudice, al pari dell'Avvocato incaricato dal condominio, decreti ingiuntivi di pagamento immediatamente esecutivi, nonostante opposizione. È sufficiente un piano di ripartizione delle spese approvato dall'Assemblea, sia preventivo che consuntivo: la presenza di un consuntivo di spese non è più condizione per l'ingiunzione di pagamento, né è richiesto il consenso dei condomini (Art.63 disp. Att. codice civile, R.D.318/1942, sentenze Cassazione 24299/08 e 6323/03).
L'entità della sanzione può essere impugnata presso il giudice ordinario o di pace, che può ridurla anche d'ufficio (art. 1384, Cassazione Sentenza 18128/05 del 13/09/2005) se è manifestamente eccessiva o se il condomino ha parzialmente adempiuto alle sue obbligazioni e non è stata ridotta la sanzione a suo carico.

Il compenso (tariffa) di un amministratore di condominio, stabilito al momento del conferimento dell’incarico, varia a seconda delle caratteristiche del complesso condominiale, il numero degli appartamenti (condomini) e le parti in comune dell'edificio.

In tema di condominio negli edifici ha natura regolamentare la clausola che disciplina le modalità d'uso del parcheggio comune anche se inserita in un regolamento avente origine contrattuale.
Questa, in estrema sintesi, la decisione resa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 9681 del 6 maggio 2014.
La pronuncia s'inerisce nel solco della tradizionale distinzione tra clausole regolamentari e contrattuali e ribadisce che è ben possibile che un regolamento contrattuale contenga clausole di natura assembleare, come tali modificabili con la normale procedura di revisione del regolamento assembleare (cfr. art. 1138 c.c.)
=> Nozione di regolamento condominiale
Il regolamento di condominio, a dircelo è la giurisprudenza, è l'atto con il quale si disciplinano una serie di aspetti, menzionati nell'art. 1138 c.c., inerenti la gestione della compagine cui si riferisce.
Più specificamente, secondo la Cassazione, "il regolamento di condominio, quali ne siano l'origine ed il procedimento di formazione e, quindi, anche quando abbia natura contrattuale, si configura, in relazione alla sua specifica funzione di costituire una sorta di statuto della collettività condominiale, come atto volto ad incidere con un complesso di norme giuridicamente vincolanti per tutti i componenti di detta collettività, su un rapporto plurisoggettivo concettualmente unico ed a porsi come fonte di obblighi e diritti non tanto per la collettività come tale, quanto, soprattutto, per i singoli condomini" (Cass. 29 novembre 1995 n. 12342).
Il regolamento condominiale, è bene ricordarlo, è obbligatorio quando i condomini sono più di dieci.
Con il termine condomini, vale la pena evidenziarlo, si fa riferimento ai proprietari di un'unità immobiliare ubicata in un complesso condominiale. Più comproprietari di una medesima unità immobiliare, ai fini del computo dei condomini, devono essere considerati alla stregua di un unico partecipante al condominio (cfr. art. 67 disp. att. c.c.).
Il regolamento può avere origine e natura assembleare oppure origine contrattuale e natura contrattuale oppure ancora origine contrattuale e natura mista (ossia contenere clausole contrattuali ed assembleari).
Il regolamento assembleare dev'essere approvato con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all'assemblea, che rappresentino almeno 500 millesimi. La modifiche possono essere deliberate con le medesime maggioranze.
Nel caso del regolamento contrattuale il discorso è più articolato. Esso è sempre approvato con il consenso scritto di tutti i partecipanti al condominio. La differenza sostanziale tra i due tipi di regolamento sta nel fatto che solamente quest'ultimo può contenere clausole limitatrici dei diritti dei singoli sulle cose comuni e di proprietà esclusiva che si sostanzino in oneri reali, obbligazioni propter rem o vere e proprie servitù. Unico limite: l'inderogabilità delle norme elencate nel quarto comma dell'art. 1138 c.c. Il regolamento negoziale, tuttavia, può anche contenere delle semplici clausole regolamentari.
La distinzione della natura delle clausole è di fondamentale importanza. Infatti mentre per la modificazione delle clausole contrattuali è sempre necessario il consenso scritto di tutti i condomini, per la revisione delle norme regolamentari contenute in un regolamento contrattuale è sufficiente una deliberazione assembleare adottata con le maggioranze previste dall'art. 1138 c.c. (cfr. Cass. SS.UU. n. 943/99).
Natura delle clausole che disciplinano l'uso del parcheggio condominiale
Nel caso risolto dalla Cassazione con la sentenza n. 9681, un condomino impugnava una delibera assembleare che aveva disposto l'uso del cortile-parcheggio comune con sistema turnario. Motivo dell'impugnazione: la disciplina dell'uso del cortile era già contenuta in un articolo del regolamento di natura contrattuale sicché per modificare tale norma sarebbe stato necessario il consenso scritto di tutti i condomini.
In primo grado il condomino impugnante vedeva riconosciute le proprie ragioni ma il giudizio d'appello capovolgeva la situazione. Da qui il ricorso in Cassazione dell'originario attore. Ricorso respinto.
Si legge nella sentenza resa dagli ermellini che "la Corte di appello, partendo dalla corretta premessa che le disposizioni del regolamento di condominio le quali disciplinano l'uso delle parti comuni non hanno natura contrattuale per il solo fatto che siano state approvate all'unanimità, ha ritenuto che la clausola in questione faceva parte del contenuto normale del regolamento di condominio, di cui all'art. 1138, primo comma, cod. civ., per cui poteva essere modificata con la maggioranza prevista dal successivo terzo comma" (Cass. 6 maggio 2014 n. 9681).
Chiaramente l'esame della natura negoziale o regolamentare di una norma dev'essere eseguito caso per caso sicché la specifica formulazione della clausola, anche nell'ambito complessivo in cui è posta, può incidere sulla sua natura.

Questa, in sostanza, la domanda cui ha fornito risposta la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 23287, depositata in cancelleria il 31 ottobre 2014.
Il caso. In condomino adibiva parte della sua abitazione a studio fotografico. Il regolamento condominiale contrattuale imponeva ai condomini di "mantenere la destinazione d'uso del fabbricato quale zona residenziale". In considerazione di ciò un altro comproprietario faceva causa al fotografo per ottenere la cessazione della violazione della norma regolamentare ed il risarcimento del danno.
La causa veniva incardinata davanti al Giudice di Pace che, nonostante le obiezioni del convenuto si riteneva competente a deciderla, sancendo l'illegittimo uso da parte del fotografo. La sentenza veniva confermato in appello anche in relazione alla contestata competenza a decidere da parte del giudice di prime cure. Da qui l'epilogo della controversia davanti ai giudici di legittimità.
La controversia, quindi, più che sul rispetto del regolamento condominiale contrattuale s'è basata sulla competenza del giudice chiamato a decidere sulla sua osservanza.
Ad ogni buon conto, giacché le questioni processuali non cancellano la sostanza, è bene dire che i giudici chiamati a decidere sull'osservanza del regolamento condominiale avevano fatto giusta applicazione di quel principio a mente del quale "in materia di condominio negli edifici, l'autonomia privata consente alle parti di stipulare convenzioni che limitano il diritto dominicale di tutti o alcuni dei condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà, nell'interesse di tutto il condominio o di una sua parte, e che vietano, in particolare, a tutti o ad alcuni dei condomini di dare alle singole unità immobiliari una o più destinazioni possibili, ovvero li obbligano a preservarne le originarie destinazioni per l'utilità generale dell'intero edificio, o di una sua parte" (Cass. 19 ottobre 1998 n. 10335).
Nel caso di specie l'attività di fotografo, nei gradi di merito, è stata ritenuta incompatibile con l'obbligo previsto dal regolamento condominiale contrattuale di mantenere la destinazione d'uso dell'immobile quale zona residenziale.
Gli ermellini, tuttavia, non hanno valutato la legittimità di questa presa di posizione, ma la possibilità del giudice che s'era pronunciato in tal modo di farlo; e secondo loro non era possibile.
Motivo?
Si legge in sentenza che la limitazione “all'esercizio del diritto di un condomino sulla sua proprietà esclusiva derivanti da una clausola regolamentare, non rientra tra le cause relative alla misura ed alle modalità d'uso dei servizi del condominio, di competenza del Giudice di Pace, che sono sia quelle che riguardano le riduzioni o limitazioni quantitative del diritto di godimento dei singoli condomini sulle cose comuni, sia quelle che concernono i limiti qualitativi di esercizio delle facoltà comprese nel diritto di comunione in proporzione delle rispettive quote (Cass. Ord. 18-2-2008 n. 3937)” (Cass. 31 ottobre 2014 n. 23287).


Fonte http://www.condominioweb.com/studio-in-condominio-e-violazione-regolamento-contrattuale.11494#ixzz3mMXpyoey
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La risposta alla domanda è tutt'altro che di facile soluzione e, ad oggi, le teorie che si contendono il campo in materia di regolamento condominiale giudiziale sono tre, così sintetizzabili;
a) è possibile chiedere qualcosa di simile all'Autorità Giudiziaria;
b) non è possibile addivenire alla formazione di un regolamento condominiale giudiziale;
c) è possibile ma solamente a determinate condizioni.
Prima di entrate nel merito della vicenda, rispetto alla quale si segnala anche una presa di posizione giurisprudenziale, oltre alle varie teorie dottrinarie è utile, meglio fondamentale, delimitare il campo di azione: la questione della possibilità dell'approvazione di un regolamento condominiale giudiziale riguarda solamente quelle ipotesi in cui l'assemblea deve formare un regolamento, ossia quei condominii con più di dieci partecipanti.

Come per le compagine con più di otto condòmini – rispetto alle quali la nomina è obbligatoria – è possibile addivenire alla nomina dell'amministratore da parte del Tribunale, mentre nelle ipotesi di condominii più piccoli ciò è precluso (salvo il caso dell'art. 1105, quarto comma, c.c.), così per il regolamento la soglia di obbligatorietà incide sull'eventualità in esame.
Per comprendere le posizioni succitate è utile volgere innanzitutto lo sguardo all'opera della giurisprudenza. Secondo la Corte di Cassazione “i regolamenti condominiali, non approvati dall'assemblea ma, adottati coattivamente, in virtù di sentenza attuativa del diritto potestativo di ciascun partecipe di condominio con più di dieci componenti di ottenere la formazione del regolamento della comunione, in necessaria correlazione con la natura del titolo giurisdizionale che ne costituisce la fonte, hanno autoritativamente, ai sensi dell'art. 2909 cod. civ., efficacia vincolante per tutti i componenti della collettività condominiale, indipendentemente dalla circostanza che la loro adozione sia avvenuta nel dissenso, totale o parziale, di taluno di essi, allorché la pronuncia che ne abbia sanzionato l'operatività sia divenuta non più impugnabile e, quindi, definitiva ed irretrattabile” (Cass. 1 febbraio 1993 n. 1218).
Insomma per la Cassazione non solamente può esistere un regolamento condominiale giudiziale, ma esso ha la forza di una sentenza e, quindi, nella sostanza di un regolamento contrattuale (Pulizia scale e regolamento contrattuale).
Parte della dottrina, tuttavia, ritiene che si possa arrivare alla formazione del regolamento giudiziale solamente dopo un infruttuoso tentativo di approvazione assembleare, come accade per l'ipotesi di ricorso per la nomina dell'amministratore. Secondo questa dottrina, “occorre che un condomino prenda l'iniziativa del regolamento e che l'assemblea non lo approvi; contro la deliberazione, poiché essa viola la norma per cui è obbligatorio il regolamento, il condomino ricorrerà al giudice e questi approverà il regolamento proposto, se gli altri condomini non ne modificheranno a maggioranza le clausole” (Branca, Comunione Condominio negli edifici, Zanichelli, 1982).
Per altri autori, infine, all'Autorità Giudiziaria è completamente precluso il potere d'intervento in materia di formazione del regolamento condominiale, perché la legge non lo prevede. Per una disamina delle varie posizioni sull'argomento si consiglia A. Scarpa – A. Celeste, Riforma del condominio, Giuffré, 2013.

Solo l'autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o di accettare contrattualmente convenzioni e regole che, nell'interesse comune, pongano limitazioni ai diritti dei condomini.
Il contenuto di un regolamento di condominio – il quale è obbligatorio quando in un edificio il numero dei condòmini è superiore a dieci - può essere il più vario: in genere esso disciplina l'uso delle cose comuni (1117 c.c.), la ripartizione delle spese (1123 c.c.), la tutela del decoro architettonico e le modalità di gestione (rectius, amministrazione) dello stabile.
In particolare, hanno natura regolamentare e quindi sono modificabili dall'assemblea con la maggioranza prevista dall'articolo 1136 c.c. le sole clausole che coinvolgono interessi impersonali della collettività dei condòmini, mentre hanno natura contrattuale e sono modificabili con il consenso unanime dei condomini le clausole che incidono sulla sfera soggettiva dei medesimi. Quando il regolamento vieta l'asilo nido.
Una recente Sentenza della Corte di Appello di Palermo approfondisce tale distinzione: valutando, sullo sfondo di essa, la validità o meno di una delibera assembleare che negava ad un condomino il diritto di concedere in locazione il proprio immobile al responsabile di una clinica medica.
Il caso. L'articolo 9 del regolamento di un Condominio siciliano stabiliva che gli appartamenti dei condomini, posti oltre l'ammezzato, dovevano essere esclusivamente destinati ad uso di abitazione familiare, o di studio professionale, con divieto di adibirli a studio e/o a clinica per l'esercizio della professione medico – chirurgica.
Sulla scorta della citata previsione, l'Assemblea dei condòmini aveva negato a un condòmino la facoltà di concedere in locazione il proprio immobile ad una clinica medica.
La delibera assembleare è stata successivamente impugnata dal compartecipe, al fine di ottenere una declaratoria di inefficacia.
Il Tribunale di Palermo, in primo grado, ha accolto la domanda di invalidazione, ponendo nel nulla la statuizione. Il Condominio convenuto in giudizio non aveva, infatti, dato prova in giudizio della natura contrattuale della clausola e/o della approvazione di essa da parte dell'attore.
Seguiva il giudizio di appello avanti alla Corte territoriale: ma la Sentenza finale del 21 ottobre 2014 non cambiava la sorte della causa;anzi, rimarcava il ragionamento reso da parte del giudice di prime cure.
La motivazione. Le norme dei regolamenti condominiali, laddove si traducono infatti in una limitazione delle facoltà inerenti al diritto di proprietà dei singoli condomini, devono essere approvate all'unanimità e per avere efficacia nei confronti degli aventi causa a titolo particolare dei condomini devono essere trascritte nei registi immobiliari oppure menzionata ed accettate nei singoli atti di acquisto (ex multis, Cass. Civ. 6100/1993; 1560/1995).
Ora, nella fattispecie trattata, nessuno di quest'ultimi due presupposti (trascrizione o richiamo nell'atto di acquisto) era presente: da cui il tenore della decisione. Da non perdere: Cosa succede quando un condomino avvia un' attività che può contrastare con l'igiene, la tranquillità, ed il decoro del fabbricato
In conclusione. I poteri dell'assemblea condominiale possono invadere la sfera di proprietà dei singoli condòmini, sia in ordine alle cose comuni sia a quelle esclusive, soltanto quando una siffatta invasione sia stata da loro specificatamente accettata o in riferimento ai singoli atti o mediante approvazione esplicita del regolamento che la prevedeva (tra le tante, cfr, Cass. Civ. 26468/2007).
Solo l'autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o di accettare contrattualmente convenzioni e regole pregresse che, nell'interesse comune, pongano limitazioni ai diritti dei condomini.
Viceversa, una deliberazione che statuisca sul merito è sempre inficiabile con il massimo della sanzione: la nullità, in quanto espressione di un “eccesso di potere” assembleare.
Non rientra, invero, tra le attribuzioni dell'assemblea dei condomini ai sensi dell'art. 1135 c.c. la materia afferente i divieti e le limitazione delle destinazioni d'uso da imprimere alle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini.
Dall'altra parte, lo stesso articolo 1138, IV comma stabilisce che “Le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e della convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli articoli 118, secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 (68, 70, 71, 72 att.)”.


Fonte http://www.condominioweb.com/studio-medico-in-condominio.11740#ixzz3mMX4XlAT
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Ripartire le spese tra tutti i condomini è operazione che spetta all'amministratore: millesimi di proprietà, d'uso, suddivisione in parti uguali, ecc.
Le modalità di ripartizione sono quelle indicate dagli articoli 1123, 1124, 1126, 1130-bis c.c. , se le parti (ossia tutti i condomini) non si sono messe d'accordo in modo differente.
Poche scarne indicazioni, quelle contenute negli articoli citati. La legge detta criteri di ripartizione molto generali: si parla di spese di conservazione, innovazioni, spese d'uso, mentre solo raramente (vedi criteri per ascensori, lastrici solari d'uso esclusivo e revisione contabile) il legislatore è entrato nello specifico.
La dottrina, in tempi ormai lontani, ebbe modo di affermare che “il problema della ripartizione delle spese è quello che, in Italia, ha portato una completa disarmonia nell'istituto condominiale” (così Terzago, Il condominio, Giuffrè, 1985).
La legge di modifica della disciplina del condominio negli edifici, la legge n. 220/2012, non ha inserito molte novità di rilievo: insomma tranne che per il caso della revisione contabile (art. 1130-bis c.c.) e dell'estensione del dettato dell'art. 1124 c.c. anche agli ascensori (come ormai da anni diceva la giurisprudenza), la così detta riforma è stata deludente. Si pensi che pur consentendo l'attivazione del sito internet condominiale, la legge non ha specificato secondo quali criteri debbano essere suddivise le spese di attivazione e gestione dello spazio web.
Nessun riferimento alle sempre incerte questioni della ripartizione dei costi tra proprietari ed inquilini (sarebbe stata utile una modificazione dell'art. 9 della legge n. 392 del 1978 che s'è dimostrata largamente insufficiente); v'è poi l'introduzione della solidarietà verso il condominio per le spese dovuto dall'usufruttario e/o dal nudo proprietario.
Un'elencazione dei criteri applicabili rispetto al tipo di spesa, sia pur esemplificativa (come per le parti comuni, art. 1117 c.c., o le irregolarità nella gestione art. 1129, dodicesimo comma c.c.), sarebbe stata utilissima. Per quanto riguarda la partecipazione del conduttore alle spese condominiali, è bene ricordare che essa riguarda i rapporti interni tra proprietario e conduttore, poiché è il proprietario l'unico soggetto ad essere obbligato verso il condominio, nonché l'unica persona contro la quale è possibile agire ex art. 63 disp. att. c.c. (cfr. tra le tante Cass. 28 ottobre 1993 n. 10719). In breve, stando alla precisa catena di pagamenti prevista dalla legge, la situazione è la seguente: il condominio delibera la spesa, l'amministratore la chiede al condomino che è l'unico responsabile per il pagamento della medesima verso la compagine. A sua volta il proprietario la chiede al conduttore che, previa giustificazione, se richiesta (art. 9 l. n. 392/78), deve pagare se si tratta di spesa di sua competenza. Se nessuno paga il proprietario rischia l'azione giudiziaria ex art. 63 disp. att. c.c. (il decreto ingiuntivo) da parte del condominio. Il conduttore, a sua volta, l'azione di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento.
Torniamo alle spese vere e proprie. Senza alcuna pretesa di esaustività e tenendo sempre presente che la volontà delle parti può derogare a quanto stabilito dalla legge, qui di seguito elenchiamo le voci di spesa ed i criteri di ripartizione applicabili specificando altresì se si tratta di somme dovute dal proprietario, dall'inquilino e in caso d'usufrutto dal nudo proprietario o dall'usufruttuario. Ad ogni buon conto è bene ricordare che, salvo specifiche disposizioni previste da leggi speciali (cfr. legge n. 214/2011), ai sensi dell'art. 1004 c.c.:
Le spese e, in genere, gli oneri relativi alla custodia, amministrazione e manutenzione ordinaria della cosa sono a carico dell'usufruttuario.
Sono pure a suo carico le riparazioni straordinarie rese necessarie dall'inadempimento degli obblighi di ordinaria manutenzione.
L'art. 1005 c.c. specifica che
Le riparazioni straordinarie sono a carico del proprietario.
Riparazioni straordinarie sono quelle necessarie ad assicurare la stabilità dei muri maestri e delle volte, la sostituzione delle travi, il rinnovamento, per intero o per una parte notevole, dei tetti, solai, scale, argini, acquedotti, muri di sostegno o di cinta.
L'usufruttuario deve corrispondere al proprietario, durante l'usufrutto, l'interesse delle somme spese per le riparazioni straordinarie.
Alcune specificazioni paiono utili: sulle così dette spese d'uso di cui parla il secondo comma dell'art. 1123 c.c. è stato affermato che ove sia“possibile e non comporti una spesa esorbitante, i condomini hanno diritto a che il contributo da essi dovuto per le spese per i servizi comuni venga calcolato in funzione della utilità che in concreto da tali servizi ricavano”(così Cass. 17 settembre 1998 n. 9263).
L'approvazione delle tabelle d'uso (si pensi al servizio di riscaldamento, al servizio di portierato ed in generale a tutti quei servizi che sono fruiti diversamente dai vari condomini, non per scelta personale ma perché in generale la loro utilità è differente per i vari comproprietari), così come per le tabelle di proprietà generale è rimessa all'assemblea (cfr. anche Cass. SS.UU. n. 18477/2010). E' importante evidenziare che spetta al condomino dimostrare che una tabella d'uso è sbagliata o che, comunque, una spesa per la prestazione di servizi comuni, debba essere ripartita ai sensi del secondo comma dell'art. 1123 c.c., piuttosto che ai sensi del primo comma del medesimo articolo (ossia in base ai millesimi di proprietà se mancano le così dette tabelle d'uso) (cfr. Trib Roma 15 marzo 2006). In questo contesto, pertanto, le spese per la prestazione dei servizi suscettibili di servire i condomini in misura diversa devono essere ripartite in base alla tabelle di cui all'art. 1123, primo comma, c.c. o ai sensi di quelle redatte in ossequio di quanto stabilito dell'art. 1123, secondo comma, c.c. se esistenti.


Fonte http://www.condominioweb.com/ripartizione-delle-spese-in-condominio-ecco-unutile-tabella-da-consultare.12074#ixzz3mMVQf54t
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La modifica del regolamento condominiale, contrastante con l’atto di vendita, ha natura di atto di ricognizione

Il caso.
La I. s.a.s. sosteneva di aver acquistato dalla S. s.r.l. la piena proprietà di un appartamento con annesso terrazzo scoperto, come espressamente indicato nel rogito, terrazzo che, invece, stando al regolamento condominiale, risultava essere un bene comune gravato da una servitù di passaggio, per consentire la manutenzione delle facciate del fabbricato, del terrazzo, del lucernario di proprietà di altro interno dell’edificio e del cavedio di pertinenza del garage dell'interno suddetto.

La parte attrice chiedeva, a causa della predetta discordanza tra il rogito e il regolamento, la restituzione di una parte della somma versata al momento dell’acquisto dell’appartamento, pari al valore del terrazzo ed il risarcimento dei danni subiti.

La convenuta, pur non negando la difformità esistente tra il regolamento condominiale ed il rogito, sosteneva, a propria volta, che trattavasi di un mero errore, preso atto del quale, la stessa aveva provveduto, con provvedimento datato 23-03-2007, a modificare il regolamento, come era in suo potere, escludendo dal novero dei beni condominiali il terrazzo a livello oggetto del contendere.

Secondo la convenuta, essendo intervenuta la suddetta modifica prima della citazione introduttiva del giudizio, ogni motivo di lagnanza denunziato dalla società attrice doveva considerarsi venuto meno. Allo stesso modo, secondo la S. s.r.l., anche la domanda risarcitoria doveva considerarsi infondata, poiché la parte attrice non aveva mai perso il possesso di fatto del bene (terrazzo), né mai alcun condomino lo aveva rivendicato.

Quanto alla servitù di passaggio, ancora es istente, essendo funzionale alla manutenzione dello stesso terrazzo e delle facciate, non poteva reputarsi idonea ad incidere sul v alore del bene in contestazione.

La modifica del regolamento condominiale quale atto di ricognizione ex art. 2720 c.c.
Il Tribunale di Taranto ha dato ragione alla convenuta, ritenendo che, con la modifica del regolamento condominiale, intervenuta, come si è detto, prima dell’atto di citazione, la S. s.r.l. avesse implicitamente riconosciuto che il terrazzo era di proprietà della I. s.a.s, acquirente dell’immobile.

Il Tribunale ha, inoltre, equiparato la modifica del regolamento condominiale alla ricognizione del titolo originale, prevista ex art. 2720 c.c. (“L'atto di ricognizione o di rinnovazione fa piena prova delle dichiarazioni contenute nel documento originale, se non si dimostra, producendo quest'ultimo, che vi è stato errore nella ricognizione o nella rinnovazione”), escludendo, come invece, sostenuto dalla parte attrice, che, a tal fine, fosse necessaria la partecipazione di tutti i condomini, pregiudicati nei loro diritti dalla modifica, e la trascrizione dell’atto.

L'atto di ricognizione, previsto dall'art. 2720 c.c., infatti, presuppone l'esistenza di un documento originale contenente una valida dichiarazione, da cui derivi l'esistenza del diritto riconosciuto, e non sostituisce il titolo, costituendo solo una prova della sua esistenza; pertanto, l'applicazione di tale norma presuppone il previo accertamento dell'effettivo significato dell'atto dedotto in giudizio, valutazione riservata al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, ove sorretta da congrua motivazione (Cassazione civile, sez. I, 04/02/2009, n. 2719). L’atto di ricognizione non ha, quindi, natura dispositiva, ma si limita a provare l’esistenza di un diritto, riconosciuto in un altro documento; nel caso di specie, con la modifica del regolamento condominiale, la parte venditrice ha voluto semplicemente correggere il precedente regolamento condominiale, riconoscendo che il terrazzo a livello, come risultava dall’atto di acquisto, non rientrava tra i beni comuni, ma era in proprietà esclusiva dell’acquirente e posto a servizio dell’unità immobiliare acquistata dalla parte attrice, come dimostrato anche dalla conformazione della terrazza e dal piano di accatastamento.

La soluzione.
Il Tribunale ha, quindi, rigettato tutte le domande ed eccezioni proposte dalla I. s.a.s. nei confronti della S. s.r.l., ritenendo che la natura del terrazzo condominiale non fosse mai stata posta in discussione da parte degli altri condomini e che la servitù di passaggio non incidesse sul valore economico del terrazzo, essendo prevista, innanzitutto, per la manutenzione dello stesso ed in secondo luogo per quella delle facciate condominiali e delle altre proprietà individuali e, per tale motivo, potendo essere equiparata a quella spettante in virtù dell’art. 843 c.c., che impone al proprietario di permettere l’accesso ed il passaggio attraverso la sua proprietà, ove ne sussista la necessità, al fine di costruire o riparare un muto o altra opera del vicino oppure un bene comune.


Fonte http://www.condominioweb.com/terrazzo-a-livello-la-modifica-del-regolamento-condominiale-quale-atto-di-ricognizione.1561#ixzz3mMa1Ioc1
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Se l'amministratore ha deciso in un determinato modo e l'assemblea non revoca o comunque non si oppone o addirittura ratifica, il condomino deve rispettare quella decisione.

inoltre:

"L'amministratore con il supporto del consiglio dei consiglieri ha deciso, di propria iniziativa, di mantenere il cancello automatico che conduce ai box aperto, tutti i giorni, dalle 06.45 alle 09.30 e dalle 16.45 alle 19.30.

Gli è stato detto e scritto che non può andare bene in quanto, in tal modo viene potrebbero crearsi delle problematiche inerenti la sicurezza del condominio e di tutti i condomini. Tra l'altro nell'autorimessa non ci sono solamente box ma anche posti auto aperti e quindi autovetture alla portata degli estranei. L'amministratore ha risposto che è stato così deciso per ottenere un risparmio in termini economici e per salvaguardare il motore del cancello.

Che cosa si può fare?
Non ha deciso l'assemblea; si tratta di decisioni di un gruppo di persone quindi potrebbe essere a carico loro la spese del temporizzatore? Ci sarà un'assemblea a breve, in quell'occasione posso dissociarmi caricando le responsabilità ad amministratore e consiglieri?".

La risposta al quesito è la seguente: l'amministratore ha il potere di regolamentare l'uso dei beni e dei servizi comuni in modo tale che ne sia garantito il miglior godimento a tutti i condomini.

L'esercizio di tale potere è garantito dall'assunzione di provvedimenti vincolanti per tutti i condomini, salvo annullamento da parte dell'assemblea o, alternativamente, dall'Autorità Giudiziaria, con azione da esercitarsi nei modi e nei termini di cui all'art. 1137 c.c.

L'addentellato normativo di riferimento di questa'affermazione, insomma gli articoli del codice cui guardare sono il 1130 n. 2 ed il 1133 c.c.

Insomma se l'amministratore, in ragione del costante andirivieni di autovetture nell'ambito di determinate fasce orarie, ritiene di voler far installare un temporizzatore al fine di evitare un logoramento più veloce del cancello automatico e se questa spesa non si sostanzia in un esborso notevole, egli può agire tranquillamente in tal senso.

Ciò a maggior nel caso in cui l'azione è stata ordinata con l'ausilio del consiglio dei condomini; quest'ultimo, vale la pena ricordarlo, è organo cui sono demandate funzioni consultive e di controllo dell'operato dell'amministratore (cfr. art. 1130-bis, secondo comma, c.c.). In questo contesto, se il provvedimento dell'amministratore non esorbita dai suoi poteri non gli si può addebitare alcuna responsabilità per eventuali furti o danneggiamenti.

Ad ogni buon conto, come nel caso sottopostoci dal nostro utente, l'ultima parola spetta sempre all'assemblea condominiale che, in virtù dei suoi generali poteri, ha sempre la possibilità di revocare/modificare il provvedimento dell'amministratore di condominio.
(La spesa per l'automazione del cancello, se deliberata dall'assemblea, deve essere pagata da tutti i condomini)

Se l'assemblea decide per la conferma, a nulla vale la dissociazione del singolo condomino. Essa può essere determinante solamente nel caso di decisione su liti giudiziarie (art. 1132 c.c.) ma in ogni altro caso tutti i condomini sono tenuti a rispettare le decisioni dell'assise (cfr. art. 1137, primo comma, c.c.).

Il proprietario di un immobile concesso in locazione non è tenuto a rispondere del debbio accumulato dal conduttore con la società che somministra l'acqua
Nei contratti di somministrazione dell'acqua a rispondere dell'obbligazione contrattale è solo il conduttore, in quanto intestatario dell'utenza e parte del rapporto contrattuale intessuto con il fornitore.
Nessun pregio riveste, sotto tale aspetto, la clausola di salvaguardia contenuta nel regolamento comunale di Montecatini ove prevede la responsabilità solidale del titolare del diritto di proprietà, nel caso in cui non faccia comunicazione del (mancato) rientro del possesso.
Consegue che il proprietario dell'immobile, ancorché locatore, non sia legittimato passivamente a rispondere dell'obbligazione neppure in via solidale.
A tal conclusione perviene il Giudice di Pace di Pistoia, statuendo sul merito del difetto di legittimazione passiva da parte del proprietario dell'immobile.
Il fatto. L'azienda che gestisce il servizio di distribuzione delle risorse idriche presso il Comune di Montecatini agisce in giudizio per il recupero di un credito contro l'intestatario dell'utenza e nei confronti del proprietario dell'immobile che lo aveva concesso in locazione.
Il locatore, costituitasi ritualmente, eccepisce preliminarmente la propria carenza di legittimazione passiva.
L'eccezione è considerata pregevole da parte del Decidente; l'azione di responsabilità contrattuale spiegata dall'azienda pubblica nei confronti del proprietario dell'immobile è stata così respinta, stante il seguente iter argomentativo.

La Sentenza. La Pubblica amministrazione non può di propria iniziativa imporre prestazioni personali o patrimoniali ai cittadini a meno che dette prestazioni non siano previste in leggi o fonti ad esse equiparate.
I regolamenti e le fonti secondarie non sono in grado di disporre obblighi di tale fattezza, se non di dare mera esecuzione a fonti di rango primarie.
Nel caso in specie, la previsione regolamentare del Comune di Montecatini è stata ritenuta contra legem, laddove estenda, in date circostanze,una responsabilità solidale in capo al proprietario dell'immobile in caso di mancato saldo della bolletta “acqua” da parte del rispettivo conduttore.
Tale disposizione contrasta – a dire del giudicante - le norme generali del codice civile volte a regolamentare il rapporto e il relativo sinallagma contrattuale.
Il Giudice, pertanto, facendo ricorso, da una parte, ai precetti di cui agli articoli 4 e 5 della Legge 2248 del 1865 allegato E – i quali consentono di disapplicare i provvedimenti amministrativi illegittimi -,e, dall'altra parte, alla carta dei servizi relativi al servizio idrico – la quale prevede la responsabilità esclusiva del conduttore -, ha disapplicato la norma del regolamento comunale e statuito sul merito della carenza di legittimazione del convenuto proprietario dell'immobile.
In estrema sintesi, dunque, si è in grado di concludere affermando che:
il locatore di un bene immobile, in quanto estraneo al contratto di somministrazione stipulato dal conduttore con l'ente che somministra le risorse idriche, non è tenuto a rispondere della relativa obbligazione, neppure in via solidale.


Fonte http://www.condominioweb.com/utenza-idrica-il-locatore-non-risponde-dei-debiti-contratti-dal.12072#ixzz3mMViB8fw
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E' reato scattare ripetute fotografie ai componenti della famiglia di un condomino al fine di documentare le violazioni al regolamento condominiale

In particolare, i Supremi giudici, hanno confermato la condanna emessa dal giudice di pace a carico di una condomina per la sua «condotta di scattare ripetute fotografie ai componenti della famiglia di un condomino con i quali era in corso una lite da lungo tempo» in quanto «il giudice rilevava che i luoghi in cui erano ritratte le persone, pur facendo parte delle zona condominiale, erano aperti al pubblico e che era del tutto irrilevante il fine che l'imputata si era prefissa e cioè di documentare le violazioni al regolamento condominiale».

La corte ha rilevato che «il reato si configura in presenza di una condotta invasiva della sfera altrui quando viene tenuta in luogo aperto al pubblico e per petulanza», osservando che «poiché lo scopo dell'imputata era quello di provare che quelle persone violavano il regolamento di condominio, ad esempio perché parcheggiavano in parti comuni, non era certo necessario fotografare le persone, era sufficiente fotografare le auto, mentre il tempestare di fotografie le parti lese può certamente essere ritenuta un'azione petulante e fastidiosa non consentita».

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